di Luca Ghirimoldi
Nessun epitaffio per chi non mantiene una promessa
(Nawal Marwan)
Incendies, pellicola di Denis Villeneuve tratta dall’omonima pièce teatrale di Wajdi Mouawad e meritoriamente distribuita da noi col titolo La donna che canta dalla Lucky Red nel 2011, è un’opera geometrica e straziante, per la pudica precisione con cui mette in scena un’epopea di amore e violenza che sa richiamare tutti all’ordine e alla morale.
È sintomaticamente una faccenda di testamento a portare una giovane ricercatrice di matematica, Jeanne Marwan (la vibrante Mélissa Désormeaux-Poulin) e suo fratello gemello Simon (un altrettanto efficace Maxim Gaudette) alla scoperta di una verità sconvolgente, che sarà solo la prima di una lunga serie. Le ultime volontà della madre, Nawal (Lubna Azabal, la più intensa e brava di tutto il cast), emergono dalle carte bollate del notaio Lebel (lo scrupolosamente paterno Rémy Girard): i due devono consegnare due lettere sigillate al vero padre, ignoto e che entrambi davano per morto, e ad un non meglio precisato fratello, che mai avevano saputo di avere. Il tutto in una terra con cui il coscienzioso e responsabile Occidente dovrà prima o poi fare i conti: il Medio Oriente, qui ritratto in un Libano al naturale, splendido e ferito, che – ad un anno di distanza dall’uscita del film nelle nostre sale – richiama, con l’involontaria e sardonica ironia delle coincidenze, la Siria martoriata dei telegiornali serali.
Da questo incipit melodrammatico, che Jeanne raccoglie con volitività femminile rispetto alle rabbie ed alle paure di Simon, prende il via una vicenda potente e al tempo stesso sempre circoscritta con maestria sotto la soglia del grido, del disordine formale ed esistenziale. Sulla tela della rabbia e dei tormenti famigliari, con i fili dell’agnizione e del ricordo, il film di Villeneuve tesse le vicende di Nawal, ‘non riconciliata’ con la Storia e con i due figli. Sotto i suoi occhi e sulla sua pelle, il Libano degli anni Settanta precipita nel più devastante degli incubi, tra milizie cristiane, cecchini palestinesi e longa manus israeliana. L’odio etnico e religioso – strappatole sia l’uomo che amava che il figlio abbandonato in fasce – sarà capace di chiederle il prezzo più alto. Seguirà per lei la lotta armata; e pure per Jeanne e Simon il pegno non sarà meno duro.
Incendies, con il rigore dolente delle emozioni primarie ma senz’alcuna concessione spettacolare o voyeuristica, brucia così le vite e le vicende di due generazioni, tramite secchi stacchi temporali tra ieri e oggi, scorciati campi lunghi che ricreano un universo stravolto e concretissimo, partecipati primi piani del dolore e delle torture di Nawal, la “donna che canta” del penitenziario-lager di Kfar Rayat. Un manierismo discreto e al contempo tragico, orchestrato su inserti musicali puntuali (come la commovente You and whose army? dei Radiohead) e, ancor più, su strategiche ellissi della violenza; è la cifra del pudore, che scaturisce dall’esprit de géométrie dell’intreccio, a far risuonare davvero le urla dei sommersi.
Un gran esempio di cinema etico e civile, nel senso pieno del termine; senza tesi aprioristiche, senza letture edulcorate della situazione dell’oggi e senza irenici ed ipocriti autocompiacimenti difensivi. Ma con il nitore di un assioma, che fa penetrare sotto la cute di Nawal – e, per proprietà transitiva, in tutti noi – l’assurda necessità della guerra e della violenza, illustrando, in aspra impassibilità e schietta forza stilistica, il fardello dell’eterna sopraffazione tra simili. Sangue chiama sangue, a rappresaglia segue rappresaglia, fino all’atroce e attualissimo massacro di civili inermi su un pullman con annessa esecuzione, pallottola alla nuca, di una bambina musulmana. Non si tratta di accettare la logica del terrorismo, ma di capirla per esorcizzarla, spezzandone le catene; all’unico scopo e con la sola speranza di evitare che le colpe dei padri ricadano sulle nuove generazioni.
E perché, forse, “uno più uno può fare uno” come Simon spiega a Jeanne nel finale di questo magnifico film. Geometrico e straziante, terso e calibratissimo: come un teorema di odio e rancore, amore e speranza. Come la vita. Un probabile capolavoro del nostro tempo confuso.
Incendies – La donna che canta (Canada, 2010), 130 min., di Denis Villeneuve, con Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Rémy Girard, Abdelghafour Elaaziz.