Arriva l’ultimo giorno di festival e con lui anche il momento di tirare le somme di questa lunga e densa esperienza. Per chi viene a Mantova da turista il Festival è un’occasione per visitare una città, partecipare a un paio di incontri e la sera poi tornare a casa. O al massimo il giorno dopo. Per La Balena Bianca, che ha avuto la fortuna di poter partecipare attivamente, di vedere la «grande macchina» da dietro le quinte (e senza le responsabilità e gli oneri di volontari e collaboratori), di vederla in funzione dall’inizio alla fine, la percezione è completamente differente. Agli eventi, alle interviste, agli spettacoli, su cui pure si è concentrata l’attenzione di questo diario di bordo, si associano con intensità pari o superiore i momenti di discussione, le sedute in sala stampa, le pause con lo staff, l’osservazione delle persone con sguardo da sociologi (o antropologi) improvvisati. Tutto questo forse non è rimasto nelle parole di questo resoconto, eppure è stato una componente decisiva di questa esperienza, tanto da arrivare a influenzare i resoconti, da condizionarne i giudizi.
L’ultimo giorno allora diventa l’occasione per ripassare tutti quei momenti senza la fretta che ti spinge a correre da parte a parte, per i luoghi del Festival, sempre trafelati, sempre senza tempo. È passata la voglia di riempirsi l’agenda di appuntamenti (non certo di lavoro, sia chiaro…), prevale un desiderio di lentezza, per godersi gli ultimi sorsi di quella che, in fin dei conti, è stata come una vacanza. E poi ci sono gli spunti che questo Festival ha suggerito, più o meno incalzanti, ma tutti ugualmente rilevanti: su alcuni si ritornerà molto presto (vedi alla voce «tavola rotonda tra bloggers», correva il giorno #3), altri li si lascerà sedimentare, per farli riaffiorare – chissà – tra le righe di una recensione, di un «editoriale», di una discussione. Crediamo funzioni così anche per il pubblico che assiste al Festivaletteratura: o almeno ce lo auguriamo. Altrimenti non si spiegherebbe il perché di tanti taccuini improvvisati che durante gli incontri – o quelle finte interviste che somigliano più a lectiones magistrales – vengono riempite di appunti. Dovrebbero essere il segno di una riflessione che comincia in occasione di un appuntamento importante, talvolta di lusso (lo può dire forte chi ha visto Bauman, Lodge, ma anche Edgar Morin, Toni Morrison, Tito Boeri e Pietro Grasso, che purtroppo non si è avuto il tempo di vedere), e che ci si ripropone di non abbandonare, di riprendere un giorno. Magari di darle uno sviluppo concreto. Sarà il tempo a decidere se era stato solo ottimismo della volontà.
A noi interessa che questi punti spunti non cadano; cercheremo di tenerli vivi (sempre con il nostro sguardo critico, senza ambigue semplificazioni). Provando a rinnovare temi e discorsi incominciati in occasione di questo Festival proveremo a rendere più fluido il discorso culturale, così che rassegne, presentazioni, incontri e interviste diventino solo le manifestazioni contingenti di un percorso che continua attraverso le parole e i pensieri.
È anche per questo, per questa sensazione di passaggio (inevitabile nel momento di una «fine») che oggi non ci dilunghiamo sugli incontri a cui abbiamo assistito. Basterà accennare a Pierre Bayard, professore e teorico francese, e alla sua ipotesi di «critica interventista», nella quale si lascia al lettore la libertà di investigare nel testo di un romanzo per trovarne le incongruenze e ipotizzare nuovi e più «corretti» svolgimenti, ma anche per modificarlo – il testo – per renderlo più godibile, più adatto alla lettura, più adeguato al suo autore (addirittura si può pensare di attribuire un testo classico a uno scrittore diverso da quello effettivo…). Un esempio di disinvoltura di fronte ai capolavori della letteratura occidentale, che affascina lo spettatore-lettore e lo rincuora di fronte alle ostilità e alle resistenze che certe opere non mancano di presentare (esempio che acquista un’ulteriore autorevolezza se si scopre che in Francia i libri di Bayard sono pubblicati da Les Editions de Minuit, casa per eccellenza dalla teoria letteraria più sperimentale e avanguardista). L’apparentemente ingenua spregiudicatezza di Bayard si sposa bene con l’apparentemente infantile semplicità dei racconti per bambini di Paolo Nori. Sono le sue parole a darci l’arrivederci a questa città e a questo Festival: un ultimo appuntamento cercato fino all’ultimo, proprio per verificare la celeberrima arte performativa dello scrittore emiliano. Di fronte a un uditorio di bimbi e genitori Nori libera la sua vena affabulatrice – quasi da menestrello -, la stessa che percorre anche i suoi romanzi «per adulti» e che li rende così vicini ai nostri sentimenti più superficiali (ma non per questo da poco). È una tenerezza che non ignora i disagi e le contraddizioni della vita e connota situazioni che possono toccare i confini del fantastico (un bambino al quale viene sostituito il cervello) ma anche insidiare i territori del quotidiano più banale, sovvertito da paradossi che lo rendono quasi irriconoscibile.
Si chiude così, all’insegna di una narrazione ridotta ai minimi termini ma capace di dire il vero in due parole, un cerchio che si è aperto quattro giorni fa all’insegna della conoscenza più specializzata e profonda e che si è svolto attraverso campi tangenti ma non sempre coincidenti (ma colpevolmente si sono ignorati tutti gli appuntamenti extra-letterari), che hanno mostrato tutte o quasi le facce che può assumere la letteratura, oggetto privilegiato di questo Festival.
Il diario di bordo termina qui.
È tempo di ritornare ai nostri mari. Non ci sarà buonanotte stasera. Da Mantova ricominciamo a navigare.
Achab