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L’Orlando Furioso della postmodernità

di Pietro Virtuani

NON HAI DAVVERO IMPARATO NULLA?

C’era una volta il Romanzo di formazione. Il protagonista, da giovane scapestrato, passava attraverso esperienze che lo facevano maturare; il conflitto con le convenzioni borghesi poteva mediarsi, sfociare nel compromesso o concludersi in tragedia. Il bilancio finale veniva affossato da più o meno grossi rimpianti, oppure risanato dall’inquieta pace dell’aurea mediocritas. Ma al di là del canovaccio specifico, una delle caratteristiche più comuni al romanzo è la formazione dei personaggi (quelli a tutto tondo per intenderci) che attraverso esperienze approdano a un nuovo stadio di sé o affinano la loro (e la nostra) visione del mondo. Potremmo dire con una battuta che, più che di alcuni “romanzi di formazione”, il romanzo è formazione. Formazione dei personaggi talvolta, formazione in chi legge di una visione del mondo.

I fiori a tutto questo glieli porta Mattia Pascal: non ho capito nulla dice alla fine: e infatti nel romanzo il disordine si fa incontrollabile, la trama ordina sempre meno, il protagonista diventa uno sparuto atomo ancorché particolare nel caos generale, che gira a sprazzi e a vuoto. Anche nel finale di V. di Pynchon uno dei due protagonisti, Benny Profane, confessa qualcosa di molto simile: vorrebbe che le sue esperienze gli insegnassero qualcosa, ma gli sembra di non aver imparato proprio nulla.

UNA MALATTIA COSI’ SOTTILE CHE NON HA VISTO NESSUNO

Come siamo approdati a questo? Forse (e da questa ipotesi si snoda tutto il labirinto di V.) “between 1859 and 1919, the world contracted a disease which no one ever took the trouble to diagnose because the symptoms were too subtle – blending in with the events of history, no different one by one but altogether – fatal”.

Tutto ciò che riguarda la malattia del XX secolo è materia di V., romanzo enciclopedico, selvaggio, macabro, picaresco, una coincidenza di opposti senza conciliazione, una beffa della lettura (ah, i diritti del lettore…), un perno senza ruota. Scritto a soli venticinque anni, tra l’altro.

Che cos’è questa V? Un’iniziale ricorrente e qualche oggetto morto, oppure un piano occulto che presiede la Storia? Iniziata per caso, la ricerca di Stencil diventa subito una teoria paranoica che sembra unire eventi a caso per interpretarli come parti di una misteriosa cospirazione globale. V appare in tanti luoghi, in tempi e forme diverse; talvolta è una donna, Victoria Wren o Veronica Manganese o Vera Meroving, oppure un luogo, il Vesuvio, la Valletta, Vheissu (una terra immaginaria), oppure la Dea Venere o la Vergine, la virtù di Machiavelli, i razzi V1 e V2.

Incarnando qualsiasi cosa, V rappresenta la forza entropica che elimina le distinzioni e attende al degrado del mondo. Di fatto, l’ossessione di Stencil è uno sforzo di traslare la storia in un modello lineare e meccanicista per ordinare un mondo sempre più disordinato e insensato. Pynchon però non dimostra che i tentativi di Stencil siano falsi. La costruzione rimane, perché in fondo cos’è questo se non la necessità umana di controllare il caos?

Ma questa esigenza pervade Stencil a tal punto che non riesce a concepirsi senza una V e pur non pervenendo mai a granché, continua a procedere con la sua astrazione e a cercare altri tasselli da allineare. Tasselli che trova nell’Egitto di inizio secolo, dove i turisti europei indulgono nelle illusioni della Baedeker su Alessandria: o in Angola nel 1922, durante i terribili giorni dello sterminio degli Herero da parte dell’imperialismo tedesco; la mentalità turistica che ingabbia i luoghi in schemi preconcetti, non è che una forma lieve del dramma del colonialismo, che cambia e impone nuove gerarchie. Oppure troverà altre tessere a Malta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, quando nella famosa scena alcuni bambini smontano il bad priest; o nella Firenze del 1899, dove la rivolta al consolato venezuelano si intreccia col tentativo di rubare La Nascita di Venere; oppure nella Parigi del 1913 durante la prima rappresentazione del Le Sacre du printemps di Stravinskij…

Opposta e speculare all’orizzonte di Stencil, la maggior parte di V. è ambientata nell’America contemporanea, New York anni Cinquanta, e racconta i casi dei numerosi personaggi che girano intorno al Rusty Spoon e alla banda dei morbosi (the whole sick crew), una compagnia un po’ bohémienne di disadattati (“quelli della banda dei morbosi non vivono, fanno esperienze. Non creano, parlano di quello che creano” dice Rachel Ownglass). Preti che convertono ratti nelle fogne e ragazze che fanno l’amore con le loro automobili, scrittrici di pessimi romanzi rosa e artisti impegnati a disegnare ossessivamente danish cheese, jazzisti che ci mettono anima e corpo e relazioni tra chirurghi plastici e le loro pazienti, varie coppie di giovani che si mettono insieme e cose che non si mettono bene affatto. In particolare il protagonista è Benny Profane, vero antieroe del romanzo, uno sradicato, uno schlemihl, che si districa tra lavoretti (cacciare i coccodrilli nelle fogne, sorvegliare i manichini dei crash-test), feste, amori casuali ed incontri vari. Il moto di Profane e dei suoi amici, opposto a quello programmato e mentale di Stencil, è descritto dal cordino dello yo-yo, senza direzione e senza progresso, come tanti perfetti prodotti dell’entropia, tanti atomi che si incontrano e disperdono senza logica. L’incontro tra Stencil e Profane sancirà la partenza per Malta, isola mitica dove la storia convive tutta insieme, per tentare di risolvere l’enigma.

IL PRESENTE E’ PROFANATO, IL PASSATO E’ STILIZZATO

Due personaggi opposti nei quali Pynchon rappresenta i due distruttivi estremi del XX secolo. Stencil modella la sua vita per una ricerca, Profane non cerca nulla; la cospirazione governa il mondo di Stencil, quello di Profane il caso. Paranoia da un lato, mancanza di senso dall’altro. Il passato si stencilizza, il presente si profana. Il cordino dello yo-yo usato per descrivere Profane è uno stato d’animo, perché infatti non vi è progresso interiore, non vi è scopo finale per i personaggi. E infatti alla fine sarà proprio Profane a dire di non aver imparato nulla, e a correre nel buio di una Valletta ancora piagata dalle devastazioni dei bombardamenti.

In questi due contrari, frutto dell’intollerabile visione binaria del XX secolo, Pynchon mostra il franare del mondo moderno. Delle numerose e variegate scene di decadenza in cui V si manifesta, il denominatore comune può essere l’avanzata dell’inanimato, dell’astrazione e dell’insensatezza (dai progressi della chirurgia plastica al bad priest che si smonta al manichino che preannuncia che siamo appendici dei nostri congegni tecnologici, ben cinquant’anni fa, e cosa dire oggi tra smarthphone, tablet).

E tutto questo interroga anche il lettore, che si trova a leggere questo labirinto: ha un senso ciò che legge? O è solo un accumulo caotico? Decifrare un libro è solo paranoia? E le possibili interpretazioni, quanta validità hanno?

Verrebbe da dire nessuna, ma sarebbe come dire – abbiamo visto – che una interpretazione vera c’è. Provare a interpretare l’enigma di V. è una prerogativa inalienabile per chi lo legge, come la ricerca di un senso lo è per chi vive, a meno di non disperdersi nel caos della vita e delle tantissime storie delle parecchie pagine del libro. Quanto valida e lecita sia questa operazione non lo sappiamo; non abbiamo conferme e smentite dei nostri castelli in aria. Le trame sono forse solo invenzioni umane, forzati collegamenti tra eventi accidentali; ma la lettura diventa un impegno creativo che trasforma e rinnova, reso valido dalla consapevolezza dei limiti dell’interpretazione.

Inseguiamo qualcosa che sfugge, come i paladini del Furioso cinque secoli fa, e non sappiamo davvero cosa abbiamo imparato da tutto quello che succede, in questo mondo moderno e in questa Storia che doveva finire e invece continua a proseguire.

Curiosità:

–          E se i lettori mostrassero Pynchon in pubblico?

–          Enciclopedia dei fans di Pynchon

T. Pynchon, V., Milano, BUR Rizzoli, Collana Scrittori Contemporanei, 2009, 586 pp., euro 10,96