di Marco Fumagalli
Una singolare opportunità della forma rispetto al contenuto. È attorno a questo punto che si sviluppa il parere che si trae dalla lettura di Il professionale di Ugo Cornia. Lo scrittore modenese – con alle spalle una bibliografia già piuttosto ampia, dopo l’esordio con Sellerio nel 1999 – pubblica da Feltrinelli questo romanzo che, fin dalla copertina, fa immergere il lettore in un mondo «un po’ alla rovescia» (p. 91) e, allo stesso tempo, autentico in maniera impressionante. La vernice arancione scrostata della prima di copertina (che fa da sfondo alla composizione: «macchinario artigianale blu con videocassetta “un po’ film pornografico e un po’ logo dei Rolling Stones”»), insieme al viola del dorso e della quarta, suggerisce l’idea di una realtà niente affatto composta, in cui la brutale concretezza di pezzi di mondo associati senza filtro produce un quadro di fronte al quale non si finisce mai di stupirsi e non ci si stupisce più di nulla. Come in quei microcosmi, meravigliosamente regolati da leggi altre rispetto a quelle del senso comune, che sono certe scuole professionali.
Il protagonista del romanzo, Ugo Cornia (i nuclei narrativi alla base del testo sono legati alla biografia dell’autore, insegnante di filosofia), è professore precario di scuola secondaria. Licenziatosi dal proprio impiego in seguito alla possibilità di contare su una relativa sicurezza economica, dopo alcuni mesi è indotto dalla necessità ad accettare una supplenza come insegnante di sostegno: si rivela, questo, un ponte verso una nuova esperienza di docenza, presso l’IPSIA Marinetti.
Questo il filo della storia, affidata a un racconto in prima persona condotto – siamo qui al carattere più peculiare del romanzo – attraverso una lingua originale, ispirata all’oralità (o più spesso al “pensato”) spontanea, sgangherata e sottoposta soltanto al procedere dei pensieri, provvisori, circonvoluti, immediati dell’io narrante. Come i fatti della storia. Come la realtà della storia. «[…] in quel momento e di colpo mi passava nella testa la frase “oggi io mi licenzio”» (p. 10). Questa la scintilla che in un attimo dà il via alla vicenda. Motivazione: «Perché mi sono rotto i coglioni» (p. 27).
Così agisce il protagonista, per indole; indole, forse, in parte derivata dalla condizione tutta contemporanea di una vita di lavoratore precario. Che produce una patina di inerzia e un filo di distacco. Non c’è, in questo senso, possibilità di contatto con la mentalità della zia Bruna, depositaria di quello che si potrebbe definire “il buon senso tradizionalmente inteso”: «già mi suonava nella testa la voce di mia zia che diceva Oddio, ma ti sei licenziato veramente, ma tu sei matto, che poi avrebbe anche detto che io e mia sorella non abbiamo mai avuto il senso della realtà» (p. 16). Ma, chiude la discussione Cornia, «abbiamo bisogno […] di un senso della realtà del 2001» (p. 17), in cui le cose capitano, vanno e vengono in un attimo, quasi un po’ per caso. Per questo il racconto procede efficacissimo nella rappresentazione dei giorni senza lavoro, di una vita – appunto – alla giornata, tra un amore molto erotico e un tempo molto fluido. La lingua di Cornia è un veicolo perfetto. Come un vestito sufficientemente allentato, ampio, persino sformato, per l’agio delle movenze – “buttate lì” un po’ svogliatamente un po’ per caso – del corpo dei fatti della storia e delle azioni dei personaggi.
Per la stessa ragione sembrano meno penetranti le pagine in cui Cornia accetta la nuova supplenza. La mansione è quella di insegnante di sostegno di Eugenio, preso dalle curiose manie per i tappi di bottiglie e le lavatrici. Non mancano gli episodi godibili, nel rapporto tra lo studente e il professore, che si ingegna con metodi didattici anche originali ed efficaci. Affrancandosi in parte dallo stato di inerzia, verrebbe da dire. Quasi una riappacificazione con il proprio mestiere. O, forse, una sorta di abdicazione, vista dalla prospettiva del lettore che facilmente avrà preso il gusto di quella cifra formale del Cornia dell’addio alla cattedra.
L’approdo all’IPSIA Marinetti – a seguito di un altro giro di nomine e di graduatorie (il necessario ricorso, di tanto in tanto, al “sommario pensato” dei fatti della storia da parte della voce narrante, come per riprenderne il filo, potrebbe significare qualcosa a proposito dell’instabilità e dello smarrimento di ogni linearità propri di certe condizioni lavorative) – porta invece al connubio più pieno tra la cifra stilistica così sgangherata e sfrontata da un lato, e una – a suo modo – appassionata partecipazione al nuovo contesto dall’altro.
Il professore è infine giunto in quel mondo «un po’ alla rovescia», in quel «piccolo circo» (p. 91) che è “il professionale”. Qui – la frase è significativamente ripresa in quarta di copertina – «le cose vanno avanti in modo un po’ sballato», e le azioni degli studenti sono, obiettivamente, «numeri di alto circo». È, appunto, il quadro di fronte al quale non si finisce mai di stupirsi; ma anche quello in cui, poi, non ci si stupisce più di nulla. Perché il modo migliore per starci dentro è aderirvi, assecondarlo, assumerne la logica rovesciata. Lo fa il professore Cornia, con qualche colpo al cuore, quando i «numeri di alto circo» (puntualmente condivisi con il lettore) si fanno pericolosi, ma anche con una certa naturalezza. Gioca a suo favore il suo stile, il cui essere sgangherato non è più in rapporto di opposizione col contesto. Al contrario. E lo stile, questa volta della scrittura del Cornia autore, gioca altrettanto a favore della rappresentazione della realtà del professionale. Non a caso, con la fine dell’anno scolastico, il protagonista scivola, questa volta senza fratture, in un’altra estate di «alzarsi per due mesi quando vuoi. Basta» (p. 127).
Ugo Cornia, Il professionale. Avventure scolastiche, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 127, € 11,00.