di Massimo Cotugno
Marco Bellocchio ci prova un’altra volta. Con la stessa forza che lo animava agli esordi, negli anni sessanta, quando, con il lungometraggio I Pugni in tasca, denunciava i pericoli di un piccolo mondo antico senza vie d’uscita e la tirannia del passato. Ma l’Italia del boom, in piena sbornia da consumismo, si sentiva tutt’altro che ferma e non scorgeva (o rifiutava di farlo) l’affiorare di innumerevoli contraddizioni socio-culturali, frutto di un Paese che accumulava merci senza crescere spiritualmente.
Al pari di altri grandi registi dell’epoca, da Fellini a Antonioni, Bellocchio individuava il difetto, l’anomalia del sistema che si sarebbe sviluppata nei decenni a venire come un cancro inarrestabile. Laicità e cattolicesimo, libertà e oscurantismo, vivi e morti avrebbero convissuto per tutti questi anni, producendo uno scenario culturale fatto di luci e ombre, minato da contrasti insanabili e da ferite che si riaprono ciclicamente. Come quando il Governo stesso è portato a decidere, non senza evidenti imbarazzi e gaffes, della vita di una donna.
Il caso Eluana Englaro, nell’ultima pellicola di Bellocchio, non è al centro della trama, bensì una nota sospesa lungo tutto il film, il filtro attraverso il quale leggere e codificare le diverse vicende rappresentate. Epicentro di un terremoto etico, la Englaro, con il suo sonno lungo 17 anni, svela il sonno più profondo di un’altra bella addormentata: l’Italia tutta, anestetizzata da una televisione ancora imperante, vera e propria protagonista dei primi 10 minuti del film, in cui si sentono unicamente le voci dei giornalisti televisivi ripetere le notizie sul caso della donna in stato vegetativo. Un esordio straniante, senza battute, con gli spettatori che osservano attori mirare a loro volta uno schermo che ripete monotono le notizie del giorno, il tutto interrotto unicamente da insistenti squilli di cellulare a cui nessuno risponderà.
Un’atmosfera da pesci nell’acquario, quella descritta dal regista, dove tutti trattengono il fiato nella più totale solitudine e incomunicabilità.
Uliano Beffardi, senatore Pdl interpretato da un asciutto ma sempre ineccepibile Toni Servillo, si trova a dover scegliere tra le direttive del suo partito e la sua coscienza, mentre la figlia Maria (Alba Rohrwacher) si dirige verso la clinica della discordia per pregare per la vita di Eluana. I due non si parlano, chiusi su posizioni antitetiche. Maria incontrerà Roberto (Michele Riondino), rappresentante della barricata opposta sotto le finestre della clinica, e tra i due nascerà un’intesa. Intanto, in una lussuosa villa, una grande attrice francese (Isabelle Huppert) ritiratasi a vita monacale per assistere la figlia condannata anch’essa a uno stato vegetativo, recita un ruolo estremo, quello della santa mistica, le cui sterili preghiere hanno finito per soffocare l’amore per il figlio attore e il marito. Chiude la serie di vicende la storia di un medico di nome Pallido (Pier Giorgio Bellocchio) deciso a redimere una tossicodipendente aspirante suicida di nome Rossa, interpretata da una splendida Maya Sansa. Chiave e custode del senso del film, l’episodio di Pallido e Rossa è di certo quello più didascalico, quasi una parabola evangelica a cui, non a caso, Bellocchio riserva la chiusura del film, uno dei finali più semplici e belli del cinema italiano degli ultimi anni. Il regista, in questo modo, vuole fugare ogni dubbio su quale sia davvero il tema principale del film, che non è di certo l’eutanasia e la diatriba infinita tra laici e cattolici, bensì il tema più sfruttato, più consumato ma allo stesso tempo il più antico e potente dell’intera storia del cinema: l’amore.
Tra i personaggi di questo film c’è chi ha dimenticato come si ami, chi cerca disperatamente che il suo amore venga contraccambiato, chi scopre l’amore in modo inaspettato e chi infine insegna a qualcuno ad amare sé stessi. Forza in grado di scardinare ideologie e ipocrisie, l’amore è l’antidoto ad ogni posizione dogmatica, è il germe che si insinua nelle maglie di una società che si crede incapace di superare le diversità e finisce per sacrificare il suo futuro per un bene superiore astratto e indefinito. “Innamorarsi credo sia la più grande professione di ateismo che io mi possa permettere” diceva Ernesto Picciafuoco, l’artista figlio di una madre in odore di beatitudine nel film L’ora di religione, e sembra essere ancora di quest’idea il regista Bellocchio; un ateismo il suo che significa sì alla vita in tutte le sue sfumature organiche e spirituali e no a ciò che ci mortifica, ci spegne e ci umilia intellettualmente. Come accade ad Isabelle Huppert, gelida e lontana nella sua magistrale interpretazione dell’attrice francese, la quale ha deliberatamente scelto una non-vita accanto alla figlia dormiente, bambola da boccoli biondi e dalla pelle di porcellana, una statua che ricorda, nel suo sonno perfetto, l’Ilaria del Carretto pasoliniana, emblema di un’Italia sprofondata in un sonno eterno:
Dentro nel claustrale transetto
come dentro un acquario, son di marmo
rassegnato le palpebre , il petto
dove giunge le mani in una calma
lontananza. Lì c’è l’aurora
e la sera italiana, la sua grama
nascita, la sua morte incolore.
Sonno, i secoli vuoti: nessuno
scalpello potrà scalzare la mole
tenue di queste palpebre.
Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia
perduta nella morte, quando
la sua età fu più pura e necessaria.
Bella addormentata (Italia, 2012), 115 min., di Marco Bellocchio, con Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Piergiorgio Bellocchio, Maya Sansa, Michele Riondino, Isabelle Huppert.