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“Miradar”: ai margini

di Marco Fumagalli

Sono grandi le pagine in cui Don DeLillo, nel suo Underworld, impiega la parola letteraria per narrare di rifiuti e di discariche. Attraverso e secondo questa “poetica della spazzatura” si giunge a una rappresentazione penetrante (almeno tanto quanto gli odori che quei mucchi nella realtà potrebbero emanare), ad una sofisticata mappatura di quella civiltà che la spazzatura produce. A pezzi, a sacchi, a cumuli. Come se dai margini, e dai frammenti lì sparpagliati, si potesse conoscere e indagare con puntiglio preciso il mondo che quei cocci ha creato, accantonato, espulso, mai o non ancora compreso al proprio interno.

Così in parte è – e con più efficacia avrebbe potuto essere – per il romanzo breve Miradar di Ilaria Mavilla. Nel racconto si incrociano (di capitolo in capitolo sono i diversi personaggi a prendere la parola in prima persona) le storie e i punti di vista di Margherita, aspirante romanziera che per affrancarsi dalla propria condizione spiantata presta la propria danza a squallidi spettacolini di genere erotico, della collega ballerina rumena Barbara, di Clarissa (la terza ragazza a fare ondeggiare il proprio corpo sullo sfondo delle tre croci a cristalli liquidi che arredano il palco), e della prostituta Marilù. Crocevia di tutte e di tutto, il “Miradar”: locale decaduto, ristorante che trasuda tristezza di giorno, arrancante discoteca di notte, albergo a ore all’occorrenza. A gestirlo Sugar – l’ultima delle voci che si alternano nella narrazione –, uomo tristemente andato alla deriva e consumato come le luci al neon dell’insegna del suo locale. Oggetto emblematico, questo, ripreso in copertina del volume Feltrinelli: una di quelle luccicanti luminarie procacemente antropomorfe stile USA, che oltre ad alludere a qualche soddisfazione carnale, danno l’idea di un tempo di promesse di piaceri, abbondantemente vistosi e colorati come le serpentine al neon ma impalliditi negli anni, sotto la polvere di qualche area di servizio fuori città, fuori da tutto. Siamo in quei famosi margini. Quelli, nel romanzo di Mavilla, di Prato (in via dei Confini, appunto).

Le storie dei personaggi – con i loro carichi di insoddisfazione, disillusione, cinismo, anche disperazione, e tanta marginalità – sono rese bene all’inizio del romanzo: secche, essenziali, nude e crude. Le voci si intrecciano, spuntano aneddoti e pensieri, ognuna con il proprio punto di vista. Non c’è unitarietà di giudizio, e forse non serve. I dati, e i mondi non detti ma che si immaginano dietro ad essi, bastano; così come non servono troppe parole ai personaggi al momento delle reciproche presentazioni: se si è lì, già ci si capisce, il resto lo si immagina. Sono pagine che con efficacia, dalla prospettiva di questi margini, di questi “rifiuti”, offrono una possibile via di conoscenza della realtà e della società che da qualche altra parte, da tutte le altre parti (il “Miradar” è un luogo di solo fugace passaggio), vanno come vanno, scottando, bruciando, espellendo, respingendo persone e storie. Si potrebbe insomma leggere Miradar come un’originale e interessante proposta di narrazione del reale e del presente, secondo le regole di quell’archeologia della spazzatura introdotta da DeLillo. Si considerino le possibilità offerte in questa direzione dal ridicolo teatrino inscenato dai fanatici neofascisti, in uno spazio (storico, sociale, politico) in cui sembra mancare o essere mancata una mappa con le coordinate del reale, in primo luogo ai personaggi, come l’intorpidito padre di Margherita, il quale un tempo, in nome del padre partigiano, avrebbe saputo indignarsi e reagire. Si potrebbero tutto sommato prestare a questo stesso esercizio conoscitivo anche i frammenti di storie in cui i dati sembrano un po’ troppo volontariamente caricati degli attributi di una solitudine “estrema a tutti i costi”. Così le pagine in cui Marilù si presta al “gioco” della simulazione di scene di vita matrimoniale a favore del camionista Pepi, vestendo i panni di sua moglie nella realtà morta.

Il meglio di Miradar emerge inoltre quando i cocci di vita dei personaggi sono rappresentati più lucidamente, scabri e taglienti; laddove, in sostanza, l’esordiente Ilaria Mavilla (alla sua prima prova narrativa: il romanzo è vincitore del concorso Ilmioesordio 2011, indetto dal Gruppo editoriale L’Espresso e dalla Scuola Holden) non cede alla tentazione degli inserti più scopertamente letterari che appesantiscono qualche pagina: basti citare il parallelo tra il proprio corpo e la statua in fase di scolpitura che Margherita formula nei propri pensieri, alla fine del primo capitolo. E i possibili margini di crescita dell’autrice vanno in particolare in questa direzione.

Anche perché, forse proprio a un ideale di letterarietà o di opportunità narrativa, potrebbe essere ricondotta la scelta – dalla metà del romanzo – di non accontentarsi più dell’intreccio delle storie personali che isolate o parallele languiscono e arrancano, e di volerle fare arrivare ciascuna a un compimento. In primo luogo, ci scappa qualche lieto fine che non convince (come quello della vicenda di Pepi, che riscopre il rapporto con la figlia), e che fa vacillare la verosimiglianza del testo, insinuando per qualche pagina il dubbio di un compimento generalmente salvifico del racconto, che farebbe cadere i propositi di indagine (per quanto cinica e dolorosa) di cui sopra. Non è così, per fortuna. Il precipitare sfortunato e crudele di altre vicende ripristina l’atmosfera di sostanziale sqaullore che meglio è resa da Mavilla.

C’è, alla fine, chi vince e chi perde. E le vite, quasi tutte, vanno avanti. La sensazione è che non ci sarebbe poi stato tanto bisogno di sapere con quale bottino ciascuno dei personaggi si alzi da quel tavolo da gioco che sono il “Miradar” e le cespugliose vie di periferia che lo contengono; proprio così come, vedendosi per la prima volta, le ballerine non hanno avuto bisogno di sapere da dove ciascuna di loro venisse. Bastava essere lì, ci si capiva, e il resto lo si immaginava. Così, specie nelle prime pagine (le migliori, che bastano per dare al romanzo i connotati di un’esperienza rappresentativa interessante), basta che le voci narranti mettano sotto gli occhi del lettore qualche brandello di quei rifiuti o di quei prodotti ancora amorfi che sono le proprie vite, perché egli capisca, abbia un’idea di che cosa si tratti e, efficacemente di scorcio, della realtà che tutto questo produce.

Ilaria Mavilla, Miradar, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 125, € 12,00.