Alla fisica dei quanti Werner Heisenberg diede un contributo fondamentale. Per primo colse l’impossibilità di determinare simultaneamente posizione e quantità di moto di una particella elementare, essendo sempre l’osservatore coinvolto nell’esperimento in modo da interferire con esso. Il postulato è mutuabile dalla letteratura, specialmente se riferito all’indagine sull’adolescenza, età fuggevole e renitente alla classificazione quant’altre mai nella vita.
È un oggetto strano questo libro di Alcide Pierantozzi, Ivan il terribile, opera ambiziosa. Ambientato a Roccafluvione, nella remota provincia italiana, il romanzo mette in scena un gruppetto di ragazzi alle prese con la propria difficile pubertà.
Federico, aspirante regista figlio dell’artista Greta Carrer, si è appena trasferito in paese da Trieste. È timido, educato, conscio della propria omosessualità, odia la danza ma balla bene. La recente morte della sorella destabilizza le giornate vuote della madre. Il padre, dal canto suo, ha ottenuto la gestione di un centro per i cavallucci marini aderendo alla dottrina dei Testimoni di Geova, ben inseriti nella zona.
Sara è brutta e sgraziata, vive con la madre in un capanno messo a disposizione dalla Forestale dopo che il padre è scappato con una cubana. Ha una gran tenacia e piccoli sogni di gloria con la sua cavalla spelacchiata Usa. Dà una mano nel maneggio del paese gestito dal padre di Ivan, Moreno, che è costretto su una carrozzina, e passa ore al «club delle persone particolari» con l’amica mulatta Anna, che parla per aforismi da Uomini e donne.
Ivan invece è appena uscito dal carcere minorile. Nessuno sa perché vi fosse finito, «dicevano che aveva piantato l’erba nei campetti dietro i cessi del maneggio e i carabinieri lo avevano scoperto», ma forse c’è dell’altro. Affascina i compagni con le sue asperità, la strafottenza, «lo sguardo verde Caraibi sotto il nero dei capelli arruffati». È un ragazzaccio, ma adora Mariah Carey.
I tre si studiano, imparano a conoscersi. Ne nasce gradualmente un insolito ménage à trois, perché Ivan, così spavaldo in apparenza, nasconde ambiguità inconciliabili e gioca a illudere a turno i due spasimanti. Il gioco però si fa pesante e quando Sara orchestra la propria vendetta proprio non può prevederne le conseguenze. Con la complicità di Federico, fa credere a Ivan che presto a Roma la sua cantante preferita girerà un video. Ivan la minaccia: «Se scopro che è una stronzata […] uccido quella biscia del tuo cavallo». Anche gli altri hanno un motivo per andare a Roma: Federico, spinto dall’insegnante Monica, potrà fare il provino per Amici di Maria De Filippi, Sara potrà andare all’ippodromo delle Capannelle e Anna a fare il pubblico di Uomini e donne. Si pianifica il viaggio, si parte nascosti in un van per cavalli. Ma quando Ivan scoprirà il raggiro…
In mezzo naturalmente c’è molto altro, ma il filo conduttore è questo. Meglio: il pretesto per l’operazione di Pierantozzi, che in realtà vuole imbastire una (appunto) ambiziosa indagine sui giovani-di-oggi. C’è un po’ di tutto nel libro, come forse avrete intuito. Ma è stucchevole la banalità o la scarsa verosimiglianza con cui vengono forzate molte scene, con rare eccezioni in particolare nelle pagine iniziali. Sì, perché il romanzo in realtà comincia con il piede giusto, ma si perde a poco poco fino al prevedibile finale sensazionale.
È il caso di alcuni episodi davvero poco credibili, di cui vale la pena citare almeno l’irruzione, nella grande sala in cui si tiene il periodico consesso dei Testimoni, di decine di pony sanguinanti e imbizzarriti, liberati da chi potete immaginare; oppure la scena di sesso tra Ivan e Federico (l’ennesima) sul van per cavalli che corre lungo l’autostrada, di nascosto dalle amiche nello scomparto accanto; o ancora la scoperta di una siringa per uccidere il vecchio cane di Federico, che inspiegabilmente deve essere portato fino a Roma per l’occasione: un autentico espediente che risolverà il finale.
La narrazione, poi, è condotta sul continuo palleggio tra il punto di vista di Federico e quello di Sara, che per tutto il libro si alternano nel ruolo di narratori in paragrafi contrassegnati dal loro nome. Ma questa scelta già abusata, che richiama peraltro i meccanismi dell’inchiesta, perché conferisce ai due un ruolo da testimoni, non è in realtà molto funzionale. Perché se il personaggio principale è Ivan, Federico e Sara si limitano a raccoglierne le stranezze, e la sua graduale ascesa non è meritatamente accompagnata a livello narrativo. La sua figura non viene meglio illuminata grazie alla doppia focalizzazione: i narratori si passano la parola in un semplice, continuo salto di scena, e Ivan rimane identico ai nostri occhi di lettori, non acquistando mai una vera poliedricità in forza del racconto alternato. Rimane piatto; anzi, sempre più piatto: piatto per le sue ormai prevedibili idiosincrasie, quando il tentativo dell’autore sembrerebbe l’opposto. E non avvince più.
A destare perplessità, inoltre, è tutta una serie di personaggi che faticano a trovare una valida giustificazione all’interno della trama, ma entrano ed escono di scena senza motivo. A cominciare da Anna la mulatta, che è una semplice figurina portatrice di stereotipi culturali pop, al limite con un ruolo da controcanto per Sara. Anna non incide mai nello sviluppo della vicenda se non per fare da contrappeso sul van insieme all’amica, ritagliandosi almeno il gesto essenziale di far cadere la mangiatoia, che avvierà la conclusione. È il caso di quella povera donna che è la madre di Sara, o del suo amante Carlo, l’anziano dei Testimoni di Geova, il Gran Gufo Grigio; per non parlare del padre di Federico, che agganciamo solo alla faccenda dei cavallucci e a poco altro. Appena più calibrato il padre di Ivan, Moreno, che tornerà nel finale. Poi c’è un misterioso amico del carcere di cui si sa troppo poco. Uniche eccezioni Greta Carrer e l’insegnante di ginnastica Monica, che invece guadagnano un ruolo finalmente funzionale alla trama.
Ma a deludere, credo, più profondamente, è proprio la rappresentazione della sessualità, e più precisamente dell’omosessualità, in questo libro che pagina dopo pagina acquista sempre più i connotati del «romanzo gay», avvicinandosi a un territorio oggi dominato dalla scrittura di Walter Siti. È da riconoscere che il tema è problematico. Ma, al netto delle suggestioni e delle convinzioni individuali, sono le scelte dell’autore a non convincere. Perché il ventisettenne Pierantozzi (alla terza opera dopo Uno in diviso e L’uomo e il suo amore) qui fa delle scelte precise, fra cui quella di raccontare il sesso fra minori a più riprese e senza lasciare davvero nulla all’immaginazione. E se è perfettamente logica la dovizia di particolari, la minuziosità delle descrizioni dei due narratori in presa diretta (ma più l’uno che l’altra), meno conseguente è la scelta di gettare queste sassate senza produrre increspature nell’acqua. Sembra di intuire questo: gli adolescenti fanno sesso brutalmente, inconsapevolmente, non sanno andare oltre l’atto fisico o la smanceria del momento buono, oltre la ripicca bambinesca. E questo è il naturale risvolto del loro linguaggio stereotipato, della loro mancata affabulazione interiore.
Dove Pierantozzi riesce meglio è invece nella mimesi del parlato dei ragazzi, infarcito di riferimenti ai marchi più e meno noti («Take Two neri aderenti», «pantaloni di stoffa azzurra della Danza», «Adidas bianche a strappo», «il display del Samsung»), elementi della sottocultura televisiva («figlio di Sultana», da South Park, «c’è il tassativo», dalla De Filippi) e gergali («Ehi bimbeminkia!», «Dài, non mi cagare il cazzo»), oppure nei dialoghi, che sono quasi sempre ben scritti e calibrati. Ma è difficile credere che l’immaginario di personaggi pur figli di un tubo catodico degenere si limiti a questo. Le creature rappresentate in Ivan il terribile finiscono per essere talmente unidirezionali e caricate di intenzione da parte dell’autore da risultare infine un po’ false, prive di segreti che non siano quelli ovvi della loro età. Proprio qui fallisce l’autore, perché non riesce a mettere in luce il volto umbratile degli anni verdi, ma ne descrive l’acconciatura per cavarne una legge sociologica.E il romanzo, piuttosto che un «capolavoro sull’adolescenza», come recita lo strillo di Genna in copertina, «fra le inquietudini di Dostoevskij e la magia di Stephen King», appare un Moccia alla rovescia.
Alcìde Pierantozzi, Ivan il terribile, Rizzoli, Milano, 2012, pp. 315, €19.