di Davide Valtolina
Come dice il titolo, Prove di libertà di Stefano Dal Bianco (Mondadori, 2012) mette in scena il tentativo continuo, affannato, di incrinare la costrizione imposta dall’esistenza e scoprire nuovi spazi in cui potersi finalmente riconoscere. Dando un’occhiata all’indice del libro, si coglie immediatamente lo sforzo concettuale di ordinare in un percorso queste “prove di libertà”. Colpisce infatti l’architettura rigorosa, scandita in sette sezioni come le sette note della scala musicale a cui fanno esplicito riferimento le titolazioni, più un intermezzo e una sorta di conclusione (che si rivela significativamente provvisoria).
Dal Bianco suddivide la materia in aree tematiche per poter meglio mettere a fuoco le sfaccettature del prisma esistenziale e cogliere il gioco di riflessi da una faccia all’altra. Non a caso, la prima sezione – l’unica composta da tre componimenti anziché nove, come le altre – si intitola Do. Dalla Gabbia e l’ultima Si. Libertà, a suggerire esplicitamente un itinerario ascensionale, o per lo meno un tentativo di liberazione. Il percorso è invero frastagliato, sconnesso, perché gravita sì intorno ad alcuni nuclei argomentativi – condensati nel rapporto tra l’irrequietezza di fronte a «questa cosa umana intrisa di menzogna» (p. 12) e il riscatto delle “prove di libertà” –, ma si snoda in maniera complessa, dilatando i motivi propri delle singole sezioni e intrecciandoli fra loro a più riprese. Il rischio di un eccessivo rigore concettuale, insito in un libro dalla struttura tanto marcata, è così parzialmente assorbito dalla presenza sotterranea di istanze ricorrenti, che permeano l’intera raccolta e la rendono più mossa.
Non si giunge tuttavia a un’ultima parola, un punto di approdo su cui fermarsi per riprendere fiato. D’altronde, la breve prosa che chiude il libro, emblematicamente intitolata Essere umani, è un invito a interrogarsi sulle cause più profonde, alla ricerca di significati nuovi in grado di smuovere la vita di tutti i giorni; interrogarsi sul «perché» e non soltanto sul «come» delle cose: «diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo» (p. 105). Interrogazione, quindi, come seme della libertà.
Tutta la raccolta è percorsa dall’inquietudine che ferisce il soggetto e che è detta con la massima chiarezza, quasi a scoprire subito le carte, nel primo testo, intitolato Dalla Gabbia:
ma è soltanto dolore
di anime costrette,
solitudine di molti,
vuoto vissuto male,
mancanza o assenza di uno scopo.
(p. 9)
Questo rapporto problematico con il mondo deriva dalla difficoltà di capire, innanzitutto se stessi; eppure «in qualche infinitesima parte sono» (p. 29) «e lì nel centro della nullità paurosa│si distingue qualcosa» (p. 31) che però si intravede soltanto. L’io pare talvolta come disarticolato, al fondo rimane un «qualcosa» e alcuni lampi di volontà che indirizzano il soggetto, lo fanno riaffiorare dal caos e lo restituiscono a un’identità che gli consente di riconoscersi nel quotidiano; ma questi frammenti si accendono a intermittenza: la loro luce fatica a illuminare e lascia piuttosto intuire la presenza di pozzi profondissimi, forse insondabili. Nel soggetto si coagulano elementi eterogenei, racchiusi da un unico nome: del resto, più volte lo stesso poeta si rivolge direttamente ad alcune parti di sé. La modalità allocutoria investe anche altre figure (il figlio, la donna amata, i lettori e persino la poesia), come se nel confronto diretto l’io trovasse una prova della propria consistenza, un punto fermo da cui cominciare a tessere la propria indagine.
La spinta alla consapevolezza domina la raccolta e i testi raffigurano la scansione del pensiero mentre si sviluppa, ritorna indietro, continua in un’altra strada o rimane sospeso, come testimoniano le interrogazioni che ricorrono frequentemente nei passaggi più dinamici. La stessa versificazione è funzionale allo svolgersi del movimento intellettivo, ne asseconda gli snodi; di particolare effetto sono alcune chiuse, in cui la discesa graduale del pensiero si racchiude in pochi versi finali (per lo più isolati in una singola strofa), capaci di restituire un senso più pieno a tutta la poesia; l’impressione, in questo caso, è che il testo giunga finalmente a uno sbocco di significato attraverso una serie di passaggi intermedi, provvisori ma obbligati.
L’istanza conoscitiva provoca tuttavia certi momenti di congestione concettuale: le ragioni stilistiche, d’altronde, sono qua e là sacrificate a favore dello sviluppo dei moduli riflessivi, che solitamente prendono spunto dalle tematiche biografiche. Dal Bianco si addentra minuziosamente nel proprio privato e talvolta la tensione ne risente, allentandosi, come nella sezione dedicata al figlio, segnata da un accentuato patetismo (la lingua a prima vista semplice e pacata lascia infatti intravedere venature più marcate). Ma accade anche il contrario: alcuni dei testi più riusciti cominciano con situazioni quotidiane e superficiali – per fare un esempio, i componimenti intitolati Digestione e Autolavaggio – e sfociano in pochi passaggi in una dimensione speculativa di alto tenore lirico:
mentre ci dedichiamo
alla cura dei fiori e dell’erbetta,
mentre su questo prato noi fondiamo
le nostre scale di paradiso terrestre.
(Terra di paradiso, p. 72)
Dal Bianco è mosso da uno sforzo di comprensione costante, minato però da un senso di impotenza; si agisce spesso senza sapere, con l’assillo dell’insensatezza delle cose, e un varco sembra allora aprirsi quando subentrano altre logiche, come testimonia la spontanea adesione alla vita del figlioletto «che cerca di capire e non capisce│di noi niente che non sia tutto l’importante» (p. 19). La ricerca pare venarsi di accensioni metafisiche nella penultima sezione del libro, dove la morte al fondo dell’esistenza è in qualche modo contrapposta «alla somma libertà del tutto,│alla sovrana intelligenza│della fonte della luce che è nei cieli» (p. 81). Si intravede un’apertura inedita nei confronti di un legame fra un principio interno e uno esterno, che però non arriva mai a una parola definitiva. Questo motivo è senza dubbio una delle migliori risorse della raccolta, che riesce a imprimere sulla pagina il suo slancio conoscitivo, continuo benché talvolta impreciso.
Tutto il libro è percorso da “prove di libertà”, fatiche del pensiero per sondare i territori conosciuti e quelli ancora inesplorati. Fra gli strumenti privilegiati di ricerca c’è anche la stessa poesia, di cui Dal Bianco illustra lo statuto ambiguo. Poesia intesa anzitutto come mezzo per penetrare la densa materia della menzogna quotidiana, di cui è intrisa la vita (nella nota introduttiva al volume, d’altra parte, si condensano l’irrevocabile forza della scrittura e la sua fragilità, che la pone sempre sull’orlo della dimenticanza). O per contro come «schifosa scappatoia» (p. 43), un vicolo cieco dal quale non si vuole uscire. E quasi paradossalmente, altrove l’autore allude al rischio di perdersi ulteriormente nel caos, data l’origine fonda e buia della poesia:
…Io non conosco
responsabilità della scrittura e mi può capitare
di buttar giù cose sconosciute
o soltanto per poco conosciute.
(“A Arturo per forza di cose”, p. 16)
Ma come rivela l’ultimo verso di Portami via da qui – un vero e proprio appello alla poesia –, il richiamo è irresistibile: «Portami tu nell’unica vera suprema bugia» (p. 12), dove la libertà, pur mossa dalle contraddizioni insanabili della scrittura – e della vita –, è soltanto una tensione. Come del resto non può non essere.
S. Dal Bianco, Prove di Libertà, Milano, Mondadori, 2012, pp. 112, € 18.