Con evidenti affinità alla trama dell’Eleganza del riccio, una scrittura ridondante, una protagonista dal nome improbabile, una galleria di personaggi altamente stereotipata e una vicenda in sé artefatta, Le luci nelle case degli altri di Chiara Gamberale (Mondadori, 2010) è un libro che tuttavia sa stupire il lettore. Perché?
La morte in strada della giovane Maria, amministratrice del condominio romano di via Grotta Perfetta 315, consegna agli inquilini il difficile compito di prendersi cura della piccola Mandorla, sei anni, rimasta orfana e senza un parente prossimo. Una lettera-testamento scritta dalla madre alla nascita della figlia contiene l’inquietante verità: Mandorla è stata concepita «nell’ex lavatoio del sesto piano», si presume da un abitante del palazzo, date le circostanze. Gli inquilini riuniti, stretti nel ricordo della defunta molto amica di tutti, decidono però di evitare il test del dna per scongiurare il possibile disastro in una delle famiglie. Mandorla verrà formalmente adottata dall’inquilina del primo piano, ma a turno tutti si prenderanno cura di lei. La protagonista ogni due anni sale di pianerottolo, accolta come una figlia dai genitori di turno, ignara del padre, scontando i piccoli e grandi traumi dell’età. Si innamora sedicenne di un poco di buono di nome Palomo e finisce una notte in commissariato, in attesa dell’interrogatorio.
Dai rovelli di questa notte si dipana una vicenda che, appunto, è troppo assurda per voler essere verosimile, e come tale, dunque, non dovrebbe essere letta. Il romanzo della Gamberale, a scanso di equivoci, non è certo una grande opera letteraria, bensì paraletteratura; eppure si presenta come una narrazione intrigante, ben congegnata fino alla scoperta in extremis del padre (non sbirciate all’ultima pagina), e stratificata nel senso: un romanzo di intrattenimento solo nella facciata, come non manca di far notare Walter Siti su La Stampa del 19 ottobre 2010. Perché è evidente che è tutto calcolato, se i personaggi sono il non plus ultra dello stereotipo, cosa che scandalizza molti detrattori.
Salendo di piano in piano: la signora Tina, zitella apprensiva, lacrimevole, «coi capelli un po’ grigi un po’ castani legati a cipolla», loquace la notte con ospiti immaginari, trepidante per il tè del giovedì con il fido Giampietro, balbuziente ex alunno; la coppia del secondo piano, lui aspirante regista poi sconclusionato agitatore di blog per cinefili, lei avvocatessa quadrata e tradita; la coppia omo del terzo, che non salta un gay pride; al quarto piano Lorenzo, scrittore verboso e visionario, indolente e soprattutto nullafacente, e Lidia, autrice radiofonica esasperata dal compagno, con l’hobby del paracadute per sentirsi viva; i coniugi Barilla del quinto, ingegnere dalla parola definitiva e casalinga felice, due figli. Fuori dal palazzo non mancano naturalmente gli eroinomani del quartiere (Porcomondo, Titti e Fazzoletto), i compagni di scuola «di marca» con le loro famiglie normali, la fichissima della classe un po’ svampita.
Ma tutto questo campionario di persone in fondo normali rivela una sorprendente vitalità scenica, con aperture sul passato puntuali e illuminanti, scambi dialogici di perfetta tenuta, in una elaborazione narrativa sempre più compiaciuta e serrata, quasi che, trovata la formula, l’autrice si sia poi divertita a portare avanti una sorta di gioco (emblematici i nomi quasi fiabeschi dei tre malnati). Un gioco crudele: una caccia all’uomo con l’uomo alle spalle; un torello dove la palla, la protagonista non la becca mai.
Perché il vero fulcro della rappresentazione è Mandorla. Vorrei essere più preciso: la ragione d’essere del romanzo, il motivo di suggestione, sono radicati proprio nella caratterizzazione del personaggio principale, e non tanto nella messa in scena del contesto sociale di cui sopra. «Però però però»: Mandorla è autenticamente patetica, è un’orfanella frastornata, «taroccata» dice lei, e col passare degli anni un po’ tonta, benché tenerissima nel suo sforzo di comprendere una realtà che le è negata dal principio. Non ha né può avere punti di riferimento, e quando ne trova uno ne viene raggirata più che mai. È la vittima consacrata sull’altare della famiglia.
Ne consegue una condizione esistenziale involuta ma tenacemente tesa all’altrui riconoscimento, nello sforzo di acquisire un’identità sicura, proprio come quella delle stolide realtà di vita quotidiana a cui la protagonista si rivolge in bambinesche, quanto alienanti, poesie. Così, per esempio, anche in un «palo» Mandorla trova un interlocutore per convincersi «che nessuno / abbandona nessuno, / ma tutti si stanno cercando»; o a uno «striscione» può chiedere «facciamo a cambio: / dammi la tua certezza di avere ragione, / io ti do la mia certezza di sbagliare». Perché anche questo è il suo modo di contrastare «la perdita di sé», la «paura di non esistere» (Siti), veri temi del libro: «O luci nelle case degli altri / facciamo a cambio / […] al posto vostro / io / mi accendo e mi spengo / in bagno / in salotto / in cucina».
Ma a questo punto si rende necessaria una considerazione sul trattamento del patetico da parte dell’autrice. Perché il romanzo abbonda di soluzioni sceniche e stilistiche che, nella voce in prima persona di Mandorla, innescano articolate timbriche su di una prosa pur improntata all’enfasi. Una gestione della pagina che, va detto, può anche irrimediabilmente allontanare dal testo. Ma che a mio avviso si adatta molto bene al contenuto e che viene giustamente esibita nell’incipit:
Mamma. Per tutto il tempo in macchina, fino a quel posto assurdo dove per la prima volta avevo trovato ad aspettarmi tutte ma proprio tutte le persone che conoscevo (che non erano poi così tante, ma vederle insieme faceva un certo effetto), non mi era venuto in mente nient’altro. E ancora, seduta su quei gradini freddissimi mentre tutte le persone che conoscevo facevano no con la testa e piangevano e si abbracciavano, con le ginocchia allacciate al petto non riuscivo a pensare a qualcosa che non fosse mamma. Mamma, mamma, mamma. Non c’era verso. […]
Fanno parte di questa affabulazione le numerose occorrenze in secca repetitio («giusto giusto giusto», «mai, mai mai», «in questa lunga lunga notte»), significativamente mai in climax, spia linguistica della difficoltà di riformulazione e penetrazione della realtà da parte della narratrice, ma anche il ricorso a un metaforismo ingenuo («tempesta di cuscini»), alla similitudine iperbolica («sandali alti come trampoli»), all’acronimo infantile (uno su tutti, «ADME» che sta per «Altri Della Mia Età»), in una mistura sintattica che, scansando decisamente ogni contiguità con il monologo interiore, vuole in buona sostanza avvicinarsi a un registro del parlato fatto di adeguati ritmi e toni, incalzante senza apparire letterariamente limato, ridondante nel complesso ma provvisto di adeguati scarti sintattici.
Quando poi, nei frequenti corsivi che segnalano vertiginosi flashback, il racconto passa alla terza persona e la voce narrante si fa impersonale, mi pare significativa la scelta di mantenere la tensione patetica del narrato sui livelli stabiliti ma con i dovuti slittamenti retorici, in modo da rendere il testo allo stesso tempo brioso e coerente (cfr. «Maria era morta come si muore a dicembre, come si muore di martedì, come si muore sempre», dove la repetitio diventa tricolon). Sono le pagine in cui emerge anche una sistematica satira nei confronti dei tic degli inquilini del palazzo, sempre tipizzati con ironica levità. Fintanto che i cliché (perché anche di cliché si vive) non ne vengono riassorbiti.
Chiara Gamberale, Le luci nelle case degli altri, Mondadori, Milano, 2012, pp. 392, € 13