“Provammo dei sentimenti, ignorando il pericolo”
Goffredo Mezzasalma – detto Gomez – parte da Milano per ritornare a Torino, nel quartiere dove ha vissuto la sua giovinezza. Il suo fraterno amico Jumbo si è risvegliato da un coma durato trent’anni. Si tratta di un ottimo pretesto narrativo per ricostruire tramite la memoria di Goffredo un mondo tramontato, con la sua litania di oggetti a carico: il motorino Garelli Leopard, le simca e le centoventisette, i radioregistratori con la cassetta, il poster di Niki Lauda “prima dell’incidente”, gli odori, i rumori e gli ambienti di tre decenni prima. Protagonisti di questa prova d’esordio del torinese Massimo Miro sono Gomez, Jumbo, Sgummo, Novi, Ligure: un manipolo di sbandati, i “Grandiosi” – per loro stessa definizione- , ladruncoli pronti alla rissa, borgatari degli anni settanta di un quartiere operaio di Torino, Borgo Stura, una specie di bolla nello stato lontana dai controlli e dalle regole della città, scarsamente raggiungibile persino da un’ambulanza che “Minchia, si è sdrumata nella faglia”. La faglia è una profonda ferita nell’asfalto che divide il rione dalle altre zone di Torino; come se non bastasse l’emarginazione di fatto di questa comunità dal resto del mondo. La faglia simbolica che spacca in due il tessuto narrativo nel romanzo, invece, è la storia di “un prima” e di “un dopo” il tentativo da parte del gruppo di liberare Aldo Moro, che Jumbo ha individuato per una casualità in un appartamento di Corso Tassoni; prova iniziatica un po’ cialtrona, un po’ vanagloriosa voluta dai ragazzi per l’impazienza di entrare nella storia e “diventare celebri” senza far fatica: “Noi, Grandiosi di Borgo Stura, i derelitti, feccia della società, avanzi di riformatorio, avevamo salvato Aldo Moro. Il mondo ce n’era già grato, e noi ci saremmo presi tutto. Tutto. Non avremmo lasciato niente a nessuno. Volevamo la nostra parte, porca lercia. La nostra dannata parte”. È dopo questo episodio, che vede i ragazzi giocarsi tutte le loro possibilità, che Goffredo svolta radicalmente: si lega a una moglie alto-borghese e a un esigente suocero, un grande manager, esponente della Milano-bene che è anche suo datore di lavoro. Il fatto che il suo presente sia raccontato come una continua alienazione da sé, dai suoi istinti profondi; una cinica esistenza in cui si è voluto salvare dalla galera o dalla morte violenta per la strada, ci sembra una svolta persino peggiore del destino dei suoi amici. Come se l’alternativa a una vita di piccoli abusi, crimini e botte possa essere solo un’altra vita in cui un diverso livello di sopruso venga perpetrato, per esempio verso i propri dipendenti; o nei confronti dei propri fornitori. Goffredo è consapevoledi pagare un prezzo alto per la sicurezza economica di cui gode ora:
“Non sono per niente sicuro di sentirmi bene. Certi giorni mi sento un pinguino sulle dune del deserto. Altre volte un leone in mezzo al mare”.
Vive in una solitudine affettiva completa; il rapporto con la figlia è ridotto alla ricezione di sms minimali dove lei richiede ricariche del cellulare; la moglie è colei che l’ha salvato dal “dare pensiero” alla famiglia ma che dopo una visita a Borgo Stura lo disinfetta con salviette detergenti per togliergli “di dosso l’unto gassoso della periferia”. Goffredo si descrive così al volante dell’auto accanto a lei:
“Io guidavo servoassistito. Guidavo servofrenato. Guidavo ammortizzato. Non mi veniva mai niente da dire. Disinfettato, senza la felicità di un batterio”.
Non andava così nel quartiere d’origine, nel quale i rapporti familiari e soprattutto del gruppo di amici erano improntati a dedizione ed affetto assoluti; un territorio parallelo nel tempo e nello spazio; ormai perduto. Goffredo reitera nel ricordo la sua dichiarazione d’amore a un luogo che di per sé sembra avere pochi meriti; non pratica le associazioni consuete che legano le emozioni più intense a luoghi definiti idilliaci per convenzione universale. Una pila di gomme che bruciano, lontana dal rappresentare quello che è, un segno del degrado/inquinamento di Borgo Stura, risveglia in lui parti preziose della sua memoria: “quando eravamo piccoli, quella colonna altissima di fumo nero ci serviva come punto di riferimento per ritrovare la via di casa durante le escursioni in bicicletta. Era il nostro faro” . Oppure, il panorama che Gomez desiderava “allora” godersi a fine giornata non sembrerebbe incantevole; al contrario, lo era per lui: “Volevo godermi ancora un po’ le luci di Borgo Stura. La collina in lontananza, la sagoma del gasometro di Vanchiglia”. Splendide sono certe descrizioni socio-urbanistiche quasi futuristiche del quartiere, dove i palazzi e le strade acquistano vita e dinamismo, con l’inserto di metafore prese da campi semantici lontani dall’architettura e dall’urbanistica: “Palazzoni svettanti come rampe di lancio di qualcosa che non decollava mai”. Oppure: “ Le ombre di quei mostri di palazzo grigi strisciavano sugli asfalti e sui bassi fabbricati come eclissi quotidiane”.
Un romanzo della nostalgia, amaro, in cui la catarsi non è possibile; e non si alimenta la speranza.
Massimo Miro, La faglia, Il Maestrale, 2012, p. 144, euro 16
MASSIMO MIRO è nato a Milano e vive a Torino. Finalista al Premio Calvino nel 2001 con l’inedito Hanno sparato a John Lennon (ma per fortuna se la caverà), col quale si aggiudica il riconoscimento assegnato dall’Université de Savoie di Chambery. Musicista, dopo varie collaborazioni con diversi artisti è attualmente batterista degli onu44. La Faglia è il suo romanzo d’esordio – segnalato dal Comitato di lettura del XXIV Premio Calvino 2011.