Scrivere di libri pubblicati da amici non è mai semplice. Il rischio è quello della parzialità, della marchetta. Tanto più se sono editi da piccole case editrici, che mai avranno la forza di far entrare i propri autori in libreria dalla porta principale. Per farlo bisogna darsi delle regole, almeno credo. Io ne ho scelte due. La prima, quella di esplicitare il fatto. Dire: «Sapete che c’è? Io questo autore lo conosco, potrei darne una lettura di parte». La seconda, cercare di non farlo. Parlarne come se fosse l’ultima uscita di Piperno.
Una noiosa questione metodologica che mi serve per introdurre due uscite recenti. Sono due raccolte di racconti di due giovani milanesi - sì, considero Busto Arsizio parte integrante di Milano. Entrambi gli autori gravitano attorno alla nebulosa delle riviste indipendenti ed è per questo che ho avuto modo di conoscerli, di lavorarci insieme e, a volte, anche di mettere mano sui loro testi in prima persona. Non me ne vogliate.
Si sporge in avanti, lascia andare la canna del fucile per afferrare il bicchiere. È un uomo piccolo, magro, tutto nervi. La prima cosa che si nota guardandolo in faccia sono i due buchi nella barba, ai lati della bocca. Non cresceva a papà, non cresce a me e non cresce a lui. Da certe eredità non si può scappare.
C’è un’altra costante in tutto il libro. La tematica della morte, declinata di volta in volta come morte violenta - suicidio o omicidio poco cambia -, oppure come malattia, reclusione. E se aggiungiamo che lo scenario privilegiato è quello del nucleo famigliare, allora si può dire che D’Antona riesce a dar vita ad un insieme coeso, in cui i singoli racconti si richiamano l’un l’altro e si legano insieme. E non è questa forse una delle condizioni preliminari che rendono una raccolta di racconti degna di questo nome?
Ovviamente ci sono anche dei «ma», avevo promesso di non fare il tifoso. Questo controllo assoluto della frase a volte si fa eccessivo e pare dar vita a frasi troppo patinate, quasi artificiose. E in quei momenti i modelli si fanno espliciti, eccessivamente. Il dialogato di Hemingway, il minimalismo di Carver. E soprattutto, tra quelli più prossimi, Cognetti, il cui nome non a caso compare nei ringraziamenti. Gli ultimi due racconti, inoltre, non mi sembrano a livello, stridono. Paiono aggiunti dall’editore per raggiungere una lunghezza commercialmente soddisfacente. È un peccato.
Il tratto distintivo della Crespi è la fantasia, una fantasia straripante che zompetta a suo agio attraverso mondi fiabeschi e personaggi visionari – anche se l’accostamento a Fellini proposto nel risvolto è quantomeno eccessivo. I nomi stessi dei protagonisti, Johnni Stantuffo, Rapina Lebanche, Mirabel, Maturo, riescono ad evocare in poche lettere un mondo intero, un mondo che sarà di volta in volta un piccolo paese corso, la Milano di periferia, Baghdad o Il Cario. E quello che più stupisce è la capacità di parlarci di Mirafiori o della psicosi bellica con la stessa leggerezza con la quale il lettore può perdersi seguendo le avventure di un vecchietto alle prese con la coltivazione della zucca più grossa del villaggio.
Leggerezza probabilmente non è la parola giusta. Poeticità, forse sì. La frase spesso sembra cantare, ricercando accostamenti fonici e sintattici particolari. A volte spiazzanti, ma quasi mai eccessivi. Siamo qui su un polo opposto rispetto a D’Antona, dove là c’era uniformità e controllo, qui c’è variazione e libertà. E poi c’è qualcuno che dice che i «giovani» scrivono tutti uguale.
Quando si muore, si muore al presente. Nessun tempo è più appropriato ad una necessità tanto definitiva. I canti pregano, le preghiere rallentano il tempo, e tutto chiede e attende. Chiede al presente e attende forzatamente al futuro. Come se ogni volta le speranze rinnovassero qualcosa per dopo. E ciò che arriverà dopo il presente, dopo la morte è forse il vero futuro.
E allora anche i «ma» di Il futuro è pieno di fiori saranno opposti rispetto a quelli della raccolta di D’Antona. Il susseguirsi dei racconti rende evidente una ricerca stilistica ancora in itinere, con alcuni squilibri tra un testo e l’altro. Soprattutto quelli più vecchi, infatti, portano in dote un lirismo a volte eccessivo, che può cadere nel retorico. Quegli stessi testi che si servono troppo poco del dialogato e che quindi danno un’impressione di «riassunto» piuttosto che di «narrazione».
Ma qui sto andando a cercare il pelo nell’uovo. Perché le due raccolte presentano sì qualche problema - ma quale libro non ne ha, se si cerca per bene -, ma della Crespi e D’Antona se ne parlerà, ne sono sicuro. Certo, dovranno continuare a lavorare per arrivare ad uno stile più sicuro e personale. E so che lo faranno. Lo so perché li conosco. Almeno un vantaggio ce lo dovrò pur avere, no?