Una carrozza trainata da due cavalli bianchi percorre lentamente una strada di città, alla volta di una villa da sogno in cui si stanno per celebrare dei matrimoni in pacchiano stile principesco. I cavalli varcano il cancello – immagine-specchio della soglia di una ben nota “casa” – luogo simbolico della conquista di un universo paradisiaco riservato a pochi fortunati. La location è colorata e surreale, sfarzosa ai limiti dell’eccesso, immersa in un trambusto uditivo e visivo che la fa somigliare a un set cinematografico più che a un luogo di ricevimenti. Come una piccola miniatura, la scena iniziale di Reality riassume quanto accadrà nei successivi 100 minuti di film: la storia dell’entusiasmante e pericoloso ingresso del protagonista nel bengodi di cartapesta del reality show.
Luciano Ciotola è un pescivendolo napoletano, alle prese con una vita modesta, un lavoro poco gratificante, piccole truffe e una famiglia numerosa e rumorosa da mantenere. La sua chimera ha il fascino sfavillante di un oggetto di seduzione collettiva e un nome noto a tutti: il Grande Fratello. Spinto da parenti e amici Luciano partecipa alle selezioni del reality show, affidandosi con ingenua speranza alle raccomandazioni dell’ex concorrente Enzo e al suo incomprensibile (Luciano non conosce l’inglese) motto “never give up”, “non mollare mai”, ripetuto a oltranza come lo slogan di un messaggio promozionale. Luciano supera la prima audizione grazie alla sua simpatia un po’ sfacciata e giunge a Roma per il secondo provino. L’esito della selezione resta in sospeso, ma Luciano sa che dietro la rituale formula “le faremo sapere” si nasconde una porta spalancata su un futuro luminoso di popolarità e successo. Insieme con moglie e figlie fa rientro a Napoli da vincitore, salutato da un tripudio di applausi e celebrato come un divo locale. Il suo trionfo, sebbene ancora potenziale, come per contagio diventa il trionfo di tutti. Luciano allena le movenze, la parlata, le espressioni, preparandosi a interpretare il personaggio che amici e ammiratori attendono materializzarsi al di là dello schermo. Allestisce un confessionale in casa propria, concede sorrisi e chiacchiere ai fan, acquista a credito nei negozi. Ma l’attesa chiamata dalla produzione non arriva, e i riflettori su di lui si spengono silenziosamente. Luciano si rifugia nella dimensione allucinatoria del suo desiderio ossessivo di far parte del cast di concorrenti e comincia a cercare intorno a sé gli indizi della presenza di un Grande Occhio che lo tiene sotto sorveglianza. I confini tra realtà e reality si dissolvono, tanto che Luciano decide di conquistare il luogo della sua utopia penetrando di soppiatto nella casa del Grande Fratello. Ma l’ingresso non conosce celebrazioni né clamore. Luciano entra, non visto, osserva stregato i protagonisti del reality, che ballano e ridono a pochi metri di distanza da lui, ignari della sua presenza. Le pareti, i mobili e le persone sembrano ologrammi incorporei. E Luciano ride, adagiato sulla sdraio in giardino, solo e gaudente, clandestino in un mondo abitato da simulacri.
Curiosamente Reality è stato presentato al Festival di Cannes nel maggio 2012, pochi mesi dopo l’annuncio della chiusura definitiva del più popolare dei reality show, dopo dodici anni e dodici edizioni di programmazione e successi. La favola di Luciano è modernissima, ma nella percezione di chi guarda sembra già antica, avvolta da un alone fiabesco che la consegna a una realtà lontana nello spazio e nel tempo.
L’ambientazione popolana nella periferia di Napoli, la parlata dialettale e la scelta di personaggi sventurati, pacchiani e un po’ grotteschi, allontanano l’identificazione dello spettatore medio con i protagonisti del film, evidenziando una distanza incolmabile tra chi guarda (il pubblico) e chi è guardato (il personaggio).
L’enfasi sulla distanza non è accidentale, e a testimonianza di ciò Garrone sceglie un titolo semanticamente ambiguo, che da un lato richiama il noto format del “reality show” e dall’altro si può tradurre dall’inglese con “realtà”. I significati di Reality puntano in due direzioni opposte, quella della finzione televisiva e quella dell’autenticità della cosiddetta “vita vera”. Ma chi si aspetta uno sbilanciamento verso uno dei due orientamenti – l’autentico o il fictional – resta deluso da un film che mantiene il proprio focus saldamente centrato sulla storia di Luciano, senza mai cedere alla tentazione della considerazione etica o didascalica.
In controtendenza rispetto al diffuso desiderio di una critica di costume, il film fotografa senza filtro etico la “tv del dolore” e i suoi meccanismi disumanizzanti e inquadra il fenomeno del reality show nell’ottica esclusiva del vissuto del singolo. Lo sguardo sul presente, seppur impietoso nel posarsi sugli aspetti più contraddittori e inaccettabili dei nostri tempi, si mantiene moralmente distaccato e volge il proprio umanissimo interesse verso le vicende e le persone, piuttosto che sulla (sciagurata) storia più recente del nostro paese.
Il racconto procede dalla sontuosa rappresentazione di una società abbacinata dal richiamo irresistibile del successo facile – la villa dei matrimoni a inizio film ne è uno splendido affresco – all’ossessione solipsistica del protagonista, pericolosamente confinante con l’alienazione patologica. Con lo scorrere dei minuti Luciano diventa il centro catalizzatore della rappresentazione; la telecamera segue i suoi movimenti, stringe sul suo delirio paranoide, mette a fuoco una porzione di realtà sempre più ristretta. Il fuori fuoco, come un pendant visivo dell’incapacità di discernere il vero dal fittizio, vaporizza il mondo circostante in una nube evanescente, in cui reale e immaginario si confondono. Resiste solo lui, Luciano, insieme a una cecità percettiva che lo salva e lo condanna. E che, tutto sommato, lo conduce all’obiettivo.
La rappresentazione filmica, in parallelo, abbandona gradualmente l’oggettività per farsi sempre più aderente alle percezioni soggettive, distorte ma incredibilmente autentiche, di Luciano. La distanza tra dentro e fuori si spalanca, così come quella tra persona e personaggio, visibile e invisibile, realtà e reality. La regia asseconda queste oscillazioni, passando da inquadrature ampie girate in esterno, alle soggettive con macchina a mano strette sul protagonista. Lo sguardo dello spettatore s’insinua sempre più nel campo visivo ed emotivo di Luciano, condotto da una regia che esibisce l’artificiosità del medium cinematografico insistendo su un divario incolmabile tra realtà e rappresentazione. La tangibile presenza dell’apparato filmico testimonia una neutralità (etica ed estetica) impossibile. In parallelo, la follia allucinatoria di Luciano esaspera la parzialità dello sguardo, svelando la sua ineludibile inaffidabilità.
Che è però, in fondo, l’inaffidabilità connaturata a ogni percezione, più o meno filtrata, del reale.
Le regole dello spettacolo si rivelano allora valide anche per la vita “reale”: l’etica scivola nell’estetica, la distinzione tra vero e falso perde di significato, la forma prevale sul contenuto.
Reality non giudica: mostra, accosta e confonde le dimensioni confinanti di realtà e reality show.
Al pubblico spetta il delicato compito di riempire di significato lo spazio lasciato vuoto da un giudizio inespresso, o forse, inesprimibile.