Panico

di Alice Maggioni

Abbiamo una sola vita per prenderci ciò di cui abbiamo bisogno”.

Correva l’anno 2001. La crisi argentina era alle porte, già si presagiva l’imminente crollo economico. Da qui nasce il controverso testo di Rafael Spregelburd, autore, attore e regista di fama internazionale. Inserito all’interno di un’eptalogia che riprende i sette peccati capitali rivisitati in chiave moderna, Il Panico intreccia le storie di una famiglia allo sfascio mettendo in luce i peggiori vizi e le manie della nostra società.

Si potrebbe descrivere così il testo che ha calcato le scene milanesi al Piccolo Teatro per più di un mese, sotto la guida del maestro Luca Ronconi. Uno spettacolo in cui si riversa una profonda ricerca performativa e in cui la drammaturgia classica è utilizzata come base per raggiungere altri canali interpretativi. Si apre il sipario e si viene investiti dall’asimmetria del palcoscenico, inclinato e sbieco, che rompe ogni proporzione armonica creando un’inclinazione che pare innaturale anche per l’equilibrio. I personaggi sono schizzati, la recitazione è a tratti visibilmente esagerata ma non estromessa da un insieme che esce da qualsiasi schema narrativo logico. Difficile capire i momenti drammatici da quelli comici, un riso amaro che non abbandona lo spettatore per tutte le tre ore di rappresentazione.

La storia di per sé appare semplice: una famiglia borghese che, alla morte del marito, deve cercare una chiave che apra la cassetta di sicurezza del defunto, ricerca resa vitale dal presagio della crisi imminente e del crollo delle banche. Sono i personaggi a rendere incredibile questa pièce. Una madre totalmente incapace di relazionarsi con i propri figli, ora troppo soffocante ora del tutto assente. Il marito defunto che in realtà è il figlio adottivo di questa e che, ovviamente, scardina i legami affettivi già precari. La figlia che sogna di fare la ballerina e partecipa alle prove di uno spettacolo completamente privo di senso, bonaria critica alla danza contemporanea; e il fratello, vittima delle due donne e sessualmente confuso, che cerca conferme in una medium che in realtà lo porterà a perdere totalmente la sua identità sessuale. Una vicenda in cui la vita e la morte si incontrano e si scontrano, Il Panico di Ronconi assume spesso le sembianze di un film horror intriso di ironia e cinismo.

Il cast è senza dubbio d’eccezione, con attori ormai affermati sulla scena nazionale, Paolo Pierobon, Iaia Forte, Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, solo per citarne alcuni, e con promesse emergenti come il giovane Fabrizio Falco, vincitore del Premio Mastroianni all’ultimo festival di Venezia. La lavorazione è stata meticolosa, non si stupiranno i conoscitori di Ronconi, e il pubblico è stato coinvolto con incontri di approfondimento atti a comprendere meglio una performance tutt’altro che semplice. Un’efficace promozione, che ha avuto come immediata conseguenza una forte eco tra il pubblico teatrale.

Ha rispettato le aspettative?

Sicuramente siamo di fronte ad uno spettacolo che ha diviso gli spettatori e i critici. Chi ha abbandonato la sala e chi all’uscita aveva le mani arrossate per gli applausi. Eccessivo, innovativo, volgare, ironico, piatto o acuto. Si è detto e si potrebbe dire di tutto sul Panico. Resta il fatto indiscutibile che è un’istantanea di una condizione di precarietà che l’Italia sta iniziando a conoscere. Non a caso, l’opera scritta durante la crisi argentina è stata portata in scena proprio ora.

Facciamo un salto nel testo. Battute brevi, lunghi soliloqui sulla vita e la morte, dialoghi privi di senso, esternazioni tutt’altro che raffinate, Il Panico è questo e molto altro. Un’opera inclassificabile, sarebbe riduttivo costringerla in uno stile ben definito, coraggiosa e disillusa mostra un’umanità in cui “non si può più parlare di pazzia ma di mero adattamento”, come fa notare il terapeuta durante il primo atto. La commedia è suddivisa in dodici scene, ciascuna identificata con una parola chiave. I personaggi sono molto terreni, con frequenti riferimenti a prodotti commerciali, famose vie della capitale argentina, perfettamente inseriti in una realtà che tuttavia rimane distorta dalle loro stesse psicosi. La tematica della vita e della morte si scontra e convive con situazioni di degrado, una festa a base di alcol e acidi organizzata o la prostituzione transessuale. L’ultima scena, Il libro dei morti, è il vero e proprio scioglimento della vicenda, i fantasmi si appropriano della scena, non c’è nessun paradiso, nessuna ricompensa, solo una mera consapevolezza di eternità in un limbo. Il tutto accompagnato da indicazioni dell’autore, che sembrano sussurrare al lettore o al regista i suoi pensieri. Il tono è colloquiale, come a voler suggerire le sensazioni che il celebre scrittore vuole infondere sulla scena. Spregelburd parla ai lettori, vuole rimarcare la sua presenza all’interno di ogni sua composizione.

Sento sempre una sensazione di disagio quando assisto ad una messa in scena di un mio testo. Mi domando, io dove sono li? Che tracce ci sono di me?” confessa l’autore durante un incontro con il pubblico.

Rafael Spregelburd si definisce innanzitutto un attore, prima ancora che autore. Vede i suoi drammi ancora prima di scriverli e in quest’ottica visionaria compone e mette in scena. Il panorama da cui proviene è la viva capitale sudamericana, una Buenos Aires che è rinata, culturalmente parlando, durante il crollo economico. Il teatro è diventato un luogo di ritrovo e di espressione popolare. Mancano i fondi, e iniziano a nascere dei teatri casalinghi, nei salotti delle case private, attori per passione e lavoratori per necessità che si mettono al servizio di scrittori e registi per creare, interpretare e reagire. Spregelburd, immerso in questo clima di fermento culturale, compone l’opera inserita in una serie di sette drammi, scritti tra il 1996 e il 2008. Eptalogia di Hieronymus Bosch, in richiamo all’opera del pittore del sedicesimo secolo che aveva illustrato i sette peccati capitali. L’accidia ora diventa il panico, la lussuria è identificata con l’inappetenza, la gola con la paranoia, invidia è la stravaganza, la superbia la modestia e l’ira è tradotta con la cocciutaggine.

Al testo controverso si aggiungono le scelte di Luca Ronconi che sconvolgono il pubblico, nel bene e nel male. Uno spettacolo che riesce a fare il tutto esaurito e a far discutere, impegnativo, in cui i piani narrativi e visivi ingarbugliano lo scioglimento della trama. Oggetti che si muovono in scena, mobili che si trascinano e si bloccano in un equilibrio precario, manovrati da un gruppo di venti tecnici. Può piacere, annoiare o far inorridire.

Abbiamo una sola vita per prenderci ciò di cui abbiamo bisogno” dice la madre a un certo punto. Questo è il panico, è l’ansia di vivere, la frenesia, l’angoscia, la paura ma anche l’attrazione verso l’aldilà. Lo scontro anziché il confronto, terapeuti per dirci come siamo e medium per metterci in contatto con chi non è più. Non si comunica più, si esternano i propri bisogni, ciascuno cerca la propria chiave accorgendosi a malapena di chi gli sta attorno. Perlomeno nel mondo del Panico.