di Matilde Quarti
Lo sappiamo, sono passati dieci anni da Reality, ultimo album di David Bowie, e dall’omonimo tour. Sappiamo anche che il duca bianco è gradualmente scomparso dalle scene, come sappiamo dei suoi problemi di salute e di tutta la corona di supposizioni rimbalzate di testata in testata e di giornalista in giornalista. È invece passato meno di un anno da un inutilissimo articolo su Rollingstone, del maggio 2012 per essere precisi. Ce l’ho qui davanti mentre scrivo, copertina rossa su cui campeggia in lettere bianche il titolo “Che fine ha fatto David Bowie?”. Ovviamente non l’ho mai scoperto, e non lo sapeva neanche l’autore del pezzo, che però tiene a precisare di essere passato dal bar dove Bowie era solito andare, ma anche lì non lo vedevano più da qualche mese. Una cosa rilevante insomma.
Invece, alla faccia della redazione di Rollingstone, che in ogni caso ha vinto un’altra cover story, il duca bianco stava registrando il suo ritorno alle luci della ribalta, che si sono accese, come nei migliori spettacoli di cabaret, il giorno del suo sessantaseiesimo compleanno.
Il singolo, comparso l’8 gennaio senza annunci e pubblicità a precederlo, si intitola Where are we now ed è la quinta traccia di The next day, album che ne conta quattordici in tutto. Una ballata struggente in cui Bowie ricorda gli anni berlinesi, sia nel testo (“sitting in the Dschungel”, club – ora diventato hotel di lusso – che alla pronuncia suona, evocativamente, come jungle) che nel video, in cui scorre una città in bianco e nero ormai, se non scomparsa, sicuramente cambiata. Un ritorno sobrio e riflessivo, con cui Bowie (che non ha rilasciato nessuna intervista e non si è fatto vedere se non tramite la diffusione di poche e scelte foto) introduce quello che sembra essere il tema portante di tutto il nuovo lavoro: una presa di coscienza, tra l’amaro e il necessario, dello scorrere del tempo. Anche il secondo singolo messo in rete, The stars (are out tonight), accompagnato da un corto con protagonista la doppelgänger Tilda Swinton, prosegue sulla stessa scia. Sicuramente più ruffiano del precedente – e Bowie, con questo doppio colpo di marketing dimostra di essere ancora una volta il padrone indiscusso della propria immagine – vede un video decisamente pop e angosciante, in cui un vecchio e imborghesito David duetta con un femmineo e più giovane Bowie che richiama in aspetto e movenze i tempi d’oro di Station to station e The man who fell to Earth.
Anche la copertina dell’album è un dialogo/scontro con il passato: è infatti la stessa di Heroes con a coprire la foto un quadrato bianco con il nuovo titolo. Minimale e molto incisiva, ai limiti del didascalico. Molti dei nuovi pezzi ripropongono e rinnovano il classico sound bowiano, come How does the grass grow, un raffinato e reiterato lamento, la struggente You feel so lonely you could die e la title-track, The next day, che formalmente racconta la storia di un tiranno, anche se può essere lecito chiedersi se non ci sia un po’ di malizia nel verso che apre il ritornello “Here I am, not quite dying”, dopo tutte le apocalittiche notizie che sono circolate in questi anni sullo stato di salute di Bowie. A questi brani si affiancano altre sonorità da (You will) set the world on fire, super pop-rock, a I’d rather be high, di facile ascolto e con un refrain fatto apposta per stamparsi in mente: I’d rather be high / I’d rather be flying / I’d rather be dead / or out of my head, ma che dietro l’apparente leggerezza parla di un ragazzo soldato che preferirebbe essere a casa a telefonare alla sua ex pleading for some teenage sex piuttosto che in guerra. Per non parlare della seconda traccia, Dirty boys, una storia notturna e ambigua con un sax sporco da club degli anni ’50. Meno riusciti invece un paio di brani che sembrano messi quasi come un riempitivo (anche se in realtà sappiamo che le canzoni in origine erano molte di più e, anzi, la versione deluxe ne conta ben diciassette), come Valentine’s day che musicalmente (non certo per quanto riguarda il testo) potrebbe ricordare un’intensa colonna sonora da commedia romantica.
Il disco si chiude con il pezzo che ho preferito su tutti: Heat, il più cupo e drammatico, con un ripetuto “I don’t know who I am”, ideale conclusione all’opera di un eterno trasformista che dopo ogni cambio di pelle è sempre riuscito a rimanere uguale a se stesso.
The next day, in conclusione, risulta un lavoro ponderato e attento, svolto segretamente in questi ultimi due anni, in sodalizio con il produttore Tony Visconti, compagno d’armi fin dagli esordi. Un buon album, energico ma riflessivo, che sembra fatto apposta per essere suonato dal vivo. Ma per quanto riguarda le indiscrezioni circa un possibile tour, Visconti rende noto che l’intenzione di Bowie sarebbe quella di fare un’unica data, a Londra o New York, nulla di più articolato. Non ci resta quindi che aspettare quello che potrebbe essere l’ultimo concerto del duca bianco.