Prima di cominciare, sento la necessità di rendervi partecipi di un dettaglio della mia esistenza attuale: sto smettendo di fumare dopo nove anni di convinto ed entusiastico tabagismo. Sono dunque arrivata alla sera di questo lunedì già provata di default, con tre ore e un quarto di sonno, un capitolo della tesi da consegnare e il fattore trenitalia che è riuscito ad accumulare, fra andata e ritorno, 65 minuti di ritardo su una tratta percorribile in 35’. Potete immaginare con che voglia guardassi all’idea di mettermi in auto verso Milano per assistere al concerto dei Beach House, previsto per le 20 della sera dell’11 marzo. E dove, per di più? Ai Magazzini Generali. Poi però ci rifletti su e ti ricordi che è un concerto, che Teen Dream (il loro penultimo album, 2010) ti ha fatta sdilinquire per l’intero ultimo anno e mezzo e che soprattutto hai già pagato il biglietto (circuito TicketOne, 20 euro e 70)… ok, Autostrada dei Laghi sia.
Forte della consuetudine tutta italiana del quarto d’ora accademico, arrivo alle 20.30 e infatti non hanno ancora aperto i cancelli: tutti in fila per sei col resto di due. Una volta dentro, alle 21.15 sale sul palco lui, Marques Toliver; se dovessi riassumere la performance di questo bizzarro violinista in tre parole, direi: tecnicamente perfetta, entusiasta, schizofrenica; se potessi esprimermi liberamente con una locuzione volgare, direi: sfrangiamento di maroni. Non provavo una simile mescolanza di tedio e insieme desiderio di scappare lontano, credo, dai tempi del glorioso concerto di Manu Chao a cui assistetti da sobria per ben tre ore e mezza: peccato che l’esibizione di Toliver sia in realtà durata appena venti minuti. In realtà su questo Marques ne dicono tutti un gran bene e, a onor del vero, ha una voce pazzesca, una voce dalla potenza strabiliante: robe da tapparsi le orecchie, giuro.
Dopo una ventina di minuti di attesa, ecco che spengonsi le luci e taccionsi le voci e nel buio senti sussurrar: Beach House. Lui e Lei, da Baltimora con furore, sono in Italia per la presentazione dell’ultimo album, Bloom (2012); i due vantano già all’attivo altri tre dischi (Beach House, 2006 / Devotion, 2008 / Teen Dream, 2010) e sono universalmente riconosciuti, perlomeno nella cerchia degli amanti del genere, come la meraviglia del Dream Pop. E anche a me piacciono tanto e lei ha una voce davvero singolare, tanto che la prima volta che l’ho ascoltata mi sono chiesta per un attimo se magari fosse Nico, magari vecchia e senza Lou Reed. Ben due mie amiche invece pensavano che a cantare fosse lui.
La scenografia è composta da una serie di alti pannelli bianchi, trapezoidali, la cui superficie somiglia al succedersi di corde in un’arpa: guardando il palco, Alex Scally sulla sinistra (chitarra, bassi, cori), al centro Victoria Legrand (lead singer e tastiere) e sulla destra Daniel Franz (batterista in tournée).
I Beach House aprono il concerto con Wild e Trouble Maker, entrambi estratti dall’ultima fatica discografica; la giacca di paillettes color argento indossata da Victoria diventa parte integrante del curatissimo light-show, che contribuisce a rendere l’atmosfera decisamente suggestiva. Si prosegue poi con Norway, tratto da Teen Dream, per poi tornare subito al nuovo album con Other People e Lazuli; lei esegue i pezzi in maniera impeccabile e le luci di scena, riflettendosi sulla sua giacca, creano riverberi simili a quelli che si vedono al mare o sulle pareti della piscina, quando l’acqua è trafitta da spade di sole. A questo punto, Victoria ci domanda, in italiano, come vada la serata e subito si risponde ‘Bene’. E come darle torto. Dopo la breve interruzione, ecco Gila, seguito da una Silver Soul cantata magnificamente, mentre le luci trasformano i Magazzini in un cielo trapunto di stelle; e poi The hours, New year e Zebra, pezzo introdotto da un “doloroso” aneddoto di Victoria che ricorda di essere caduta dal palco, durante uno dei passati concerti a Milano. È ora il turno del nuovissimo singolo Wishes, seguito dagli ultimi tre pezzi: Take care, Myth e 10 mile stereo; l’effetto scenografico creato dal gioco di luci amplifica all’estremo le sonorità ipnotiche e l’atmosfera sognante di questi pezzi, tanto da farci trovare tutti col naso all’insù intenti a fissare una palla da discoteca che rifrange schegge luminose tutt’intorno. Appena un paio di minuti ed eccoli nuovamente sul palco per i saluti finali e gli ultimi due pezzi, Turtle island e Irene.
Il concerto è durato all’incirca un’ora e venti e non si può certo dire che si siano risparmiati; inoltre, rispetto alla traumatica esperienza (fonicamente parlando) vissuta con gli Alt-J, i Magazzini questa volta non deludono in quanto a potenza e qualità dell’impianto: insomma, ci sono tutti gli elementi per ritenersi soddisfatti. A fine concerto, cammino sulle nuvole e sento il cuore leggero e lo spirito zen rinfrancato; una volta raggiunto il bancone, mi rivolgo sorridendo alla barista:
-Ciao, vorrei un oceano atlantico di acqua frizzante da bere in un sorso.
-C’è solo naturale…
-Perfetto. Me ne daresti due ché sto morendo di sete?
-Due? Sei sicura?
-Ehm, sì… Perché?
-Vengono 3 euro l’una.
Credo sia stata la ben poco femminile bestemmia sfuggita a questo punto dalle mie labbra a infrangere definitivamente il perfetto incantesimo onirico creato dai Beach House.