Si discute spesso di come l’editoria nostrana cavalchi il fenomeno dei giovani esordienti, proponendo sul mercato opere che forse meriterebbero una più lenta maturazione. È questo il caso di Sarah Spinazzola, Il mio regalo sei tu, romanzo di suggestioni autobiografiche.
Lidia, diciottenne, viene a sapere dalla madre, quasi fosse un dettaglio di poco conto, che l’annunciatore del telegiornale in onda è suo padre, con cui non ha mai avuto contatti. Decide di incontrarlo e lo trova un po’ evasivo ma ben disposto, tanto da offrirle un aiuto per i futuri studi all’università. Ma Lidia vuole essere indipendente, si fa assumere per l’estate da un hotel nella Val d’Or, scopre la solitudine e il tran tran di animatori e inservienti, finché il padre non la riporta a Milano per iniziare una nuova vita insieme. Una volta tornata, Lidia sperimenta le instabilità del genitore, qualche raggiro, ex mogli, amanti e zie poco garbate. Lidia tenta in tutti i modi di avvicinarsi al padre sempre più stralunato, finché abbandona le speranze e torna a casa dalla madre. Fine.
È chiaro che la trama è talmente esile da scaricare su tutto il resto una aspettativa che nel libro, a nostro parere, viene troppo spesso frustrata. Se infatti è apprezzabile il tentativo di assottigliare l’intreccio mediante una secca linearità del discorso in prima persona, la cronistoria così ottenuta soffre di scarsa pregnanza nell’articolazione della materia. È il superfluo a risaltare. Con il solo risultato di depotenziare l’effetto straniante dell’impianto narrativo, questa sorta di diario post-adolescenziale. Perché qui non siamo nel dominio dell’antistoria, del romanzo psicologico o del genere simil-kafkiano.
Il racconto è scandito da brevi capitoli di due-quattro pagine, privi di qualsivoglia indicazione peritestuale. Si tratta di episodi di vita quotidiana spesso giustapposti senza efficaci legami causali, e che solo di rado costituiscono una significativa progressione di intreccio. Ne consegue una piatta narratività appena increspata da occasionali quanto banali inconvenienti. È il caso delle tre pagine su un calabrone che svolazza per la stanza d’albergo, o dell’episodio della chiave dimenticata da qualcuno nella portiera di una macchina, del tutto irrelati come altri. Una vicenda in cui quel che latita non è tanto il padre, elemento gravitazionale e al tempo stesso sfuggente per i percorsi della figlia, bensì un senso, o almeno un significato interessante.
Colpisce, quindi, la scarsa cura per la coerenza della significazione. Tutto appare amovibile, a riprova del fatto che ben poco dell’intera impalcatura è necessario, quando in un buon racconto non si dovrebbe poter spostare più nulla. La scelta di slegare il testo in capitoli sprovvisti dei cosiddetti cliffhangers risulta talvolta persino fastidiosa, e contribuisce a minare quel minimo di tensione narrativa che a fatica a volte emerge. A rafforzare queste sensazioni di imperizia e vacuità tematica contribuisce poi la puntualità di commenti francamente evitabili, come quest’altro sempre all’hotel: “Il badge è una specie di etichetta che dobbiamo indossare sempre, è una regola importante”.
E ancora, in questa narrazione che è ritenuta da alcuni felicemente cinematografica, mancano un montaggio incisivo e una degna caratterizzazione delle figure in scena, che sono piuttosto ologrammi proiettati da una voce narrante tesa a un solipsismo mai graffiante, ma sciapo e compiaciuto al tempo stesso. Perché se è legittima la scelta di registrare la realtà in presa diretta, troppo di frequente sono i ricami della protagonista a prendere il posto della plastica concretezza degli ambienti e delle persone. Sono casi isolati alcune immagini efficaci come questa: “E così se n’è andato. Il sangue è rimasto sul legno”.
Sul piano espressivo l’autrice opta per un linguaggio elementare e antiretorico, dalla sintassi asciutta. Ma anche qui non mancano le cadute di stile (e ora i demeriti si fanno editoriali): oltre a qualche svarione tipo “di filato” (sic, due volte), che è termine abbastanza forbito da non poter stare sulla bocca di questa protagonista, compaiono, a poche righe una dall’altra, frasi dal registro inconciliabile come “adesso sono una cosa molle che si spalma sul letto” e “chi è che chiama la domenica a un’ora così meschina”. A ciò va aggiunta tutta la serie di traduzioni e spiegazioni non petitae che abbondano soprattutto nella prima parte del libro, un insulto all’intelligenza del lettore: “Nei negozi all’interno dell’albergo vendono ogni tipo di pochette, si pronuncia poscett. Sono delle mini borsettine, con un elastico dietro. Si fa passare la mano dentro, la si tira su, e la si fa scorrere sull’avambraccio. È da lasciare poco sopra il gomito”. Con qualche spericolata scelta grammaticale.
Ma crediamo che il vizio di forma più nocivo al testo sia legato all’opportunità del presente come tempo della narrazione, il quale per statuto carica di significato fatti che invece nel libro hanno scarsa o nulla rilevanza. Mentre al suo posto l’uso del passato avrebbe probabilmente restituito un afflato narrativo necessario a una vicenda così povera sotto troppi punti di vista. Ne deriva un descrittivismo a tratti esasperante per una ragione precisa: se da un lato, infatti, la narratrice è piuttosto parca nel descrivere ambienti, arredi, strade, mezzi di trasporto e personaggi, d’altro canto insiste fino al parossismo nel riportare azioni, purtroppo molte delle quali implicite e quindi trascurabili: “È bella questa università. Entro e vedo un cortile grandissimo. […] Ci sono un sacco di ragazzi e di ragazze” e, poche righe dopo, “Mi avvicino al centro del cortile. È pieno di ragazzi che camminano”.
E purtroppo qui non siamo nemmeno nell’ambito dell’œil-caméra, né è ipotizzabile una parentela con i capolavori del cinema o della letteratura che hanno trasformato il racconto del futile in un’estetica tesa a un senso ben riconoscibile, al limite ideologicamente determinato (per es. antiborghese). Qui l’impressione è di un’ingenua serie di scelte autoriali che dovevano forse produrre un testo di ampia fruibilità, ma che sono così male assortite da svilire il racconto e, soprattutto, tediare il lettore.
È con una speranza propositiva che scriviamo queste cose. Da un editore come Marcos y Marcos, piccolo ma accurato nelle scelte, ci saremmo aspettati un’attenzione maggiore.
In definitiva, una pubblicazione forse troppo frettolosa, grezza, da rimeditare, perché la sensazione che lascia questo libro è che si poteva lavorare meglio sul nucleo narrativo e sull’impostazione stilistica di base.
Servivano forbici.
Sarah Spinazzola, Il mio regalo sei tu, Marcos y Marcos, Milano, 2012, pp. 284, € 16.