di Giacomo Raccis
Tutto comincia con una pista interrotta: Marinatos, detto il Filisteo, uomo burbero e strampalato, trascorre il proprio tempo libero a cercare per le spiagge di Fuerteventura oggetti abbandonati dai surfisti, con i quali arricchire il suo «museo-mausoleo», una specie di Merzbau a picco sul mare. Una mattina incappa però nel corpo esile ed esanime di uno strano essere, dotato di zampe e branchie… Neanche 40 pagine e Marinatos è già morto. A continuare infatti non è la sua storia, subito travolta dalla mala suerte, ma quella dello strano essere anfibio che, come un messaggio in bottiglia affidato alle onde dell’oceano, parte dalle Canarie e arriva a sfiorare, cambiando pelle e aspetto a seconda dei contesti, le vicende di tutti i personaggi chiamati in scena dall’autore.
Fin dall’inizio ci è chiaro che Nella vasca dei terribili piranha, con cui il fiorentino Alessandro Raveggi fa il suo esordio nella narrativa (dopo varie prove tra poesia, teatro e saggistica), sarà un romanzo depistante, pieno di strade interrotte e percorsi carsici, esuberante e ricco al limite dell’inverosimile. Come nella miglior tradizione postmoderna, infatti, il sogno che anima l’autore sembra essere quello di costruire un marchingegno dentro il quale far stare il mondo intero.
E una passione simile abita in qualche modo anche i suoi personaggi, chiamati a misurarsi con leggende, tradizioni, teorie scientifiche, invenzioni strampalate e format televisivi tutti stranamente convergenti nell’immagine della messianica venuta di un ragazzo pesce – l’anfibio di cui sopra, appunto – che arriverà per fondare una specie nuova: per fare definitivamente affondare il vecchio mondo e dare origine a uno nuovo.
Ogni capitolo parte da un luogo e da un personaggio: ma da queste due semplici indicazioni ogni sezione apre orizzonti in cui diversi percorsi si intrecciano, i personaggi si moltiplicano esponenzialmente e i loro movimenti si complicano e confondono.
Chiusa la parentesi del povero Marinatos, finita ancor prima di cominciare, troviamo Alfredo, giovane fiorentino scorbutico e secchione, impallinato di informatica e angosciato dal fatalismo catastrofico degli italiani, in partenza per Oslo dove, in concomitanza con un Erasmus, proverà a sperimentare su un popolo più freddo e “attendibile” di quello italiano l’E-Ching, un congegno elettronico da lui ideato: una sorta di telecomando con cui, attraverso una riproduzione casuale delle «immagini del destino» del classico Libro dei Mutamenti (Ching), spera di riuscire a indurre le persone a comportamenti e reazioni diverse rispetto a quelle a cui sarebbero deterministicamente destinate. Il congegno, d’ispirazione vagamente houellebecquiana, finirà per diventare parodia di se stesso, fallendo ogni volta che verrà chiamato in causa, eppure dimostrandosi sibillinamente reattivo quando illuminerà con le proprie sentenze l’epilogo dell’intero romanzo. Nel freddo norvegese Alfredo fa la conoscenza di Karen e dei suoi amici, soprannominati Nommos, dal nome del dio anfibio di una minuscola tribù africana: questi ragazzi «idolatrano la catastrofe», che avrà le parvenze di una Grande Onda e sommergerà la terra. A sopravvivere saranno solo gli axolotl, piccoli girini dalla faccia antropomorfa, di cui Karen custodisce preziosamente un esemplare nell’acquario di casa. Quando lo vede per la prima volta, Alfredo, non sospetta neppure che quell’animaletto dalla faccia pagliaccesca rappresenta il fulcro della teoria contro-evoluzionista del dottor Rudbeck: la sua natura anfibia e la capacità di ibridarsi con l’uomo lo rendono infatti l’essere più adatto a un «nuovo inizio».
Poi c’è Carolina, ex star della TV messicana, che si lascia alle spalle una tragedia familiare per imbarcarsi sull’Ecumene, ricovero galleggiante per attrici di telefilm ormai dimenticate, «api operaie» della televisione, ora in viaggio per mari e oceani. «Madre officiante» di questo «convento rilassato» è Elizabeth, che guida le sue accolite in un percorso di “purificazione” (ovvero attività di beneficienza internazionale) in vista di un ambiguo rito di passaggio: si tratta del parto dei grandi abissi, esito apocalittico di una gravidanza collettiva in cui le gestanti ritroveranno il proprio figlio e salvatore, «l’uomo pesce delle antiche civiltà», iniziatore di una nuova e agognata Età delle Acque. Toccherà ovviamente a Carolina mettersi sulle sue tracce e seguirlo nelle sue apparizioni in giro per l’Europa (da Parigi a Berlino a Firenze).
Terzo e ultimo scenario è il gioco planetario (manco a dirlo!) ideato da Vittorio Buono: si tratta di Te.L.E.Ma.Co. (The Last Entertaining Match Company), «un gioco interattivo di educazione allo scontro generazionale», in cui giovani fenomeni da baraccone reclutati da ogni angolo del globo si battono all’ultimo sangue guidati dalle direttive dei loro «proprietari giocatori». Il corpo vivo della realtà si sottomette al dogma della spettacolarità dell’intrattenimento. L’esito è catastrofico, ma l’intraprendente Buono non demorde e “riconverte” l’intera compagnia di esseri eccezionali (tra i quali meritano una menzione speciale i Gemelli Guatemaltechi, capaci di fare qualsiasi cosa tenendo un pallone sempre sospeso a suon di calci d’alta precisione balistica) a nuove imprese nello show business: a dargli garanzia di futuri successi è il non plus ultra dei fenomeni da baraccone, un soggetto tanto abile e affascinante quanto misterioso e sfuggente.
Ad aleggiare su tutte queste vicende, come ormai è immaginabile, è sempre la medesima ombra, quella misteriosa ed eccezionale di Juan Nella Vasca (che tanto ricorda nel nome il Gert dal Pozzo di blissettiana memoria), noto anche come Jan il ragazzo pesce del Nordsee o Jean lo spogliarellista (che sotto il costume bianco nasconde un «battello ebbro»…), ma anche Mutino e Verdolino, e perché no Axolotl: insomma, il ragazzo anfibio che è destinato a dare avvio alla palingenesi del mondo. È lui infatti l’anima occulta del Gran Finale Abissale, la scena madre in cui i destini di tutti questi personaggi trovano convergenza sullo sfondo di una Firenze invasa dai turisti e sommersa dall’acqua di un Arno in piena come non mai.
Per la grande macchina narrativa messa in piedi da Raveggi non c’è altra soluzione possibile che l’Apocalissi, seppur intonata a un «grottesco impossibile». Il suo ingegno non comune si destreggia sincretisticamente tra le più disparate invenzioni, citazioni, allusioni e tradizioni (basti pensare che la leggenda dell’uomo pesce invocata dalle donne dell’Ecumene mette insieme Maya e cinesi, Cristianesimo e Induismo, favole popolari italiane e i Veda), all’insegna di un picaresco che forse vorrebbe apparire più ingenuo e spontaneo di quello che è. Perché, bisogna dirlo, questo romanzo lascia l’impressione di un esercizio tecnico, di una prova realizzata con perizia e attenzione persino eccessive, tra strutture a incastro e finali con effetti speciali. Senza voler scomodare modelli illustri, come un critico ben più sapiente ed esperto ha fatto qualche mese fa, può bastare qui constatare che la sensazione del lettore, di quello più ingenuo e sprovveduto, è quella di una fusione “a freddo”, in cui gli elementi si amalgamano, prendono la forma dello stampo, ma restano in definitiva inerti, non generano alcuna reazione. Ne sono emblema i personaggi, da quelli principali alle tante comparse che li affiancano lungo la storia: ci appaiono infatti come figurine stilizzate, identità senza spessore (senza profondità si sarebbe detto un tempo), rilevanti solo in virtù della loro funzione narrativa, quando si fanno vettori di una struttura, quella della macchina narrativa, che li sovradetermina, li usa e poi li lascia cadere, annegare.
Più in generale però, il problema sta proprio in questa narrazione al quadrato, condotta sempre al superlativo, esuberante ed euforica a tal punto da non lasciare niente dietro di sé, una volta passata: la messe di richiami, allusivi o espliciti (che non mancano d’interpellare, in pieno spirito pop, anche la lucha libre o la sirena di Starbuck’s) non è altro che il pendant meta-letterario di un’immaginazione eccentrica e sulfurea, affamata di figure e di visioni, che raddoppia anche sul piano linguistico-descrittivo quell’effetto di “tutto pieno” dal quale però resta escluso proprio chi in quel pieno vorrebbe entrare sospendendo la propria incredulità.
È questo in definitiva che si deve imputare all’autore: la difficoltà di tradurre la felicità della scrittura (che pure è evidente, per quanto suoni “impressionistico” dirlo) in felicità della lettura. Ovviamente, questa è la sfida più grande e importante per chi scrive. Alessandro Raveggi ha provato a giocarla chiamando a raccolta tutte le strategie del romanzesco, esplorando l’intera tastiera dei toni e dei colori della scrittura: di questo gli si deve rendere merito (e, anzi, va riconosciuta quantomeno un’abilità non comune nella resa dei dialogati, che riescono a dare parziale riscatto ai personaggi). Facendo ricorso a un’ispirazione “esotica”, ha provato a portare una ventata d’aria fresca nelle lettere di casa nostra, mettendosi in cammino lungo una strada che in Italia, negli ultimi anni, risulta ben poco battuta, quantomeno tra quanti che aspirino a una qualche “gloria letteraria” (proprio Wu Ming potrebbe essere un valido termine di paragone). Lungo questa strada lui ha costruito il suo imponente castello. Noi, che l’abbiamo seguito, ci fermiamo a guardarlo a bocca aperta, ne rimiriamo le guglie, il portale istoriato, le statue in aggetto: solo che, alla fine, non siamo sicuri di volerci entrare.