di Marco Fumagalli
Eccolo qui il risultato tangibile. Preciso e puntuale (e un po’ disperso nella baraonda di fine campagna elettorale, e del suo pirotecnico post), alla faccia di ogni residua fiducia in un almeno vago principio di mobilità sociale e culturale. Cinquantottomila immatricolazioni in meno, in una manciata di anni, nelle università italiane. L’emorragia, quasi interamente, riguarda studenti delle classi sociali meno abbienti.
Francamente, non si possono scorgere ragioni di sorpresa e di stupore in quello che, in fin dei conti, è il risultato scontato di una serie di scelte e di non scelte accumulatesi nel tempo. Certo… Naturalmente, ora si alza il coro: il dato è grave e preoccupante. Bene. Ma non al punto da squarciare la cortina di assuefazione a un criterio di uguaglianza (o di “pari opportunità”, in termini correnti), quello della società in cui viviamo, quantomeno stravagante. Quindi amen! E poi… Poi c’è la crisi. E certo che le immatricolazioni diminuiscono: c’è la crisi. L’ottima e versatile spiegazione a tutto, con funzione anestetizzante a largo spettro; insomma un comodo alibi, buono nelle più varie circostanze per rivestire di un alone di contingente inevitabilità – «è la crisi, bellezza» – fenomeni che altrimenti “a qualcuno verrebbe il tragico sospetto” (con il conseguente e auspicabile «e si incazzò come una bestia», già consegnato alla storia del cinema) di ricondurre a un certo fattore, noto come ‘responsabilità’ o persino come ‘colpa’, senz’altro come ‘omissione’. Invece niente, nebbia fitta. C’è la crisi, è naturale che meno ci si possa permettere di studiare. E così sia.
E sia, d’accordo. Diciamolo: in Italia, molti (potenziali) studenti troncano il proprio percorso di formazione perché non se lo possono permettere. A discapito delle proprie possibilità in fatto di – vogliamo chiamarla così, anche se non si usa più? – mobilità sociale. Lo sapevamo anche prima delle diffusione di questi dati, pur ostinandoci a coltivare la fioca convinzione di vivere in un Paese, per quanto disastrato, almeno parzialmente affrancato da attributi ancien regime.
Ma è proprio toccando il territorio dell’immaginario comune che vediamo vacillare anche questa incorporea barriera. La questione è: si prenda pure atto della sospensione della parità del diritto allo studio, a causa delle condizioni di un tempo storico. Qualora, però, questo fatto perda i suoi tratti di dato reale contingente (consapevolmente registrato, individuato nelle sue ragioni, e per questo potenziale oggetto di giudizio) per assumere caratteri di necessaria inevitabilità, con una certa componente di soggezione che entra violenta, nei termini di un’incolmabile distanza percepita tra alcuni giovani (non più potenziali studenti) e le loro famiglie da un lato, e i gradi superiori di istruzione dall’altro, ebbene, a questo punto un confine sembra violato.
Si pensi alla Ida, protagonista della Storia, di Elsa Morante; nel suo assegnare, tra sé e sé, l’epiteto di «laureata» al medico a cui si rivolge angosciata e intimorita, c’è tutto il senso della propria inferiorità percepita, lo smarrimento di fronte a una differenza e a una distanza che eccedono il dato reale del titolo di studio, facendosi motivo di demarcazione quasi antropologica, su basi immutabili e necessariamente indiscutibili. Nulla, ma proprio nulla, potrebbe convincerla del fatto che un giorno lei potrebbe (o in passato avrebbe potuto, se solo le cose fossero andate diversamente) varcare questo guado. Che ai suoi occhi è in realtà un braccio di mare dalle proporzioni indefinite.
Così, oggi, ascoltando qualcuna delle voci delle dirette e dei diretti interessati, si percepisce questa stessa e antica nota. Non è più un: non posso permettermi – e dannazione questa cosa è ingiusta, mi fa incazzare! – di andare all’università. Piuttosto, suona così: non fa per me. E non per capacità. Ma per inaccessibilità economica, e infine sociale. E tanti saluti all’uscita, di settecentesca memoria, dallo stato di minorità, che a larghe falcate ci aveva traghettati fuori (o ce ne aveva dato l’idea) da un modello di società statica e irreparabilmente immobile.
Torna utile quanto osservato leggendo una discreta quantità di temi assegnati agli studenti di un istituto professionale sull’argomento – un po’ per caso, un po’ con malcelato intento “sondaggistico” – dei loro percorsi scolastici presenti e futuri. Negli scritti degli studenti ricorre una dichiarazione: ho scelto – autonomamente o su impulso famigliare – una scuola professionale per fermarmi qui, perché un diverso percorso di studi, che sfocerebbe naturalmente in università, sarebbe per me troppo costoso. Ciò che si evince da questi abbozzi di scrittura autobiografica è il fatto che tutto ciò è solidamente radicato (si legga: ‘accettato’) nell’immaginario di studenti e, a quanto pare, famiglie. Studiare costa troppo: è così, almeno per le nostre famiglie, punto e basta. È una realtà granitica e indiscutibile, senza spazi di protesta e di ribellione. Proseguire non fa per me. Neppure una nota di rammarico, di rivolta, di tensione verso almeno un tentativo, avventuroso, precario, ma attraente. Non c’è traccia della creatività di chi è in una condizione, non la riconosce come propria e non ci sta: pensare di accedere a una borsa di studio, o abbracciare la via – tutta in salita ma tutt’altro che deserta – degli studenti lavoratori. Perché? È una questione di soggezione. Che fa mettere una pietra sopra, anzi… Nemmeno pensare alla “possibilità di”. Non: purtroppo non posso; o: mi è negato. Ma: non fa per me.
E questa distanza percepita – tutta culturale prima ancora che reale, radicata a livello di immaginario – riguarda sempre l’aspetto economico. È significativo che molto di rado entri in gioco la soggezione (forse in qualche caso più realisticamente salutare) rispetto alla “difficoltà” del percorso universitario, alla sua componente di fatica e alla relativa necessità di una migliore attrezzatura culturale.
È inquietante. Oggettivamente inquietante. È un salto di qualità del fenomeno dell’esclusione. Da dato di fatto, eventuale motore di insoddisfazione, di creatività, di lotta, a dato di necessità, quasi di natura. Più della quantità degli esclusi e delle escluse (già… Sarebbe interessante scindere e considerare i dati…) è la qualità del processo di esclusione a parere oscura e preoccupante. Ed è per questo che suonano sempre come molto, ma molto scivolosi, gli inviti diffusi – incartati in tanto patinato buon senso – a rivalutare altri percorsi, ad “accontentarsi” di quello che c’è, a mettere da parte schifiltoserie assortite. Tutto bene, tutto giusto. Ma non si può non vedere come questi appelli perdano subito un proprio (molto) presunto valore universale, per rivolgersi come chirurgici bisturi ad allargare ancora le fratture di cui si è detto. Se alla soggezione ci aggiungiamo un po’ di senso di colpa, il gioco è fatto. Attaccati allo scoglio, segui l’ideale dell’ostrica di verghiana memoria. Le navi e i treni passano: ma se non sono per tutti, poco male se qualcuno resta a terra. È così. E amen.