L’alcolismo e gli espedienti di vita di un’umanità derelitta, la vodka e il boršč, gli imponenti caseggiati della metropoli sovietica in via di trasformazione, i ghebisti, gli “afghani” reduci dal fronte in cerca di nuova occupazione, i commercianti caucasici dai volti ostili e i vietnamiti stipati in sudicie topaie male illuminate, l’arrogante nomenklatura del partito tradita dalle schiere dei nuovi rampanti, le manifestazioni, gli ospedali psichiatrici e gli abusi di potere, gli artisti e gli scrittori dell’underground moscovita, soprattutto, in questo maestoso affresco che comprime gli anni cruciali tra il 1989 e il 1993 nella vicenda emblematica di Petrovič, letterato straccione dominato da un Io tanto ipertrofico quanto votato all’emarginazione. Siamo così guidati all’interno della società post-collettivistica travolta dalla perestrojka, e la attraversiamo con un punto di osservazione schiacciato a terra. La prospettiva degli ultimi, se non propriamente, quella archetipica dell’“uomo del sottosuolo”.
Vladimir Makanin ordisce il testo attingendo dallo straordinario portato culturale che giace in seno alla tradizione letteraria russa. Il romanzo è sorretto da temi e modelli che esplicitamente, per bocca del narratore Petrovič, vengono rilanciati alle soglie del duemila, ed entra peraltro nel merito delle esperienze sommerse e salvate dalla censura sovietica. Si colga, ad esempio, la vicenda di Platonov, «adibito dai boss della letteratura a mansioni di custodia e pulizia della strada», con la più che probabile insinuazione contro Gorkij. Si tratta, quindi, di un importante tessuto metaletterario che informa di sé la vicenda qui narrata, quella di uno scrittore fallito e del suo fratello artisticamente troppo dotato per non essere tolto di mezzo con la chimica da psichuška, vale a dire da manicomio. E tale connotazione è evidente fin dal sottotitolo del libro (Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo), che rimanda a Lermontov, e dalla citazione in apertura tratta dallo stesso autore: «L’eroe… è bensì un ritratto, ma non di un’unica persona: è il ritratto che compendia i difetti di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo». Rispetto a ciò, prende immediato rilievo un protagonista poliedrico e in buona sostanza opposto a quel ricco e cinico eroe, il quale fa mostra di un’accorata dedizione all’ascolto e al conforto, così come di un’umiltà di mezzi e di modi che tuttavia non gli impedisce, quando necessario, di sapere maneggiare una lama. Con duplice esito sanguinoso.
Nei lunghi e scrostati corridoi dell’obščaga, l’imponente “casalbergo” relitto dei tempi del collettivismo in fase di privatizzazione, Petrovič è conosciuto da tutti e tollerato anche grazie alla sua fama di letterato. Non ha un alloggio regolare. Unico suo bene materiale sembra essere una vecchia macchina da scrivere. Dispone però di un buco nell’ala K, la peggiore dell’edificio, e ha per anni coltivato la modestissima mansione di custode di appartamenti per conto degli assegnatari momentaneamente lontani. Ciò gli permette di godere dei “metri quadri” in sorveglianza e di intrattenere cordiali relazioni con una folla di inquilini e conoscenti, di ascoltarne le storie e le lagnanze ricevendone in cambio affetto se non solidarietà sessuale:
Venivano a rovesciare qui da me il proprio ciarpame esistenziale, accumulato, stratificato come una sfoglia. “Passare da Petrovič” ecco come lo chiamavano loro […]. “Sei venuto a confessarti?” chiedevo io […]. Io offrivo loro del tè. Ogni tanto della vodka. (Anche se, certo, il più delle volte erano loro a presentarsi con la bottiglia). Sicché io ero loro necessario. E lo ero proprio e precisamente in quanto ero una specie di scrittore.
Nei capitoli della prima parte del libro, grazie all’invidiabile tecnica narrativa con cui l’autore dispone la materia trattata, entriamo ex abrupto nella vita di questo personaggio generoso e impulsivo, votato a un’ambigua idiosincrasia. Makanin è estremamente abile nell’articolare il testo facendo leva sui tiranti più disparati: per un profilo sommario dell’ambientazione andrebbe almeno citata l’attenzione di affinità dostoevskiana per gli interni, le pareti, le scale, gli androni; la puntualità delle notazioni olfattive e di tutti gli elementi di spiccata materialità, che si tratti di una pietanza tipica, di un tè, di una vodka scadente, di vomito lasciato a seccare, o delle scariche diarroiche indotte nei soggetti in “cura” psichiatrica. Rimarcabile anche la felice partitura dei dialoghi e degli inserti a commento, con passaggio da una narratività tutta visiva a una affabulazione per così dire di retroterra: luoghi testuali in cui affiora chiaramente anche l’istruzione cinematografica dell’autore.
Seguendo il vagabondare di Petrovič per appartamenti, giardinetti e stazioni della metropolitana, veniamo in contatto con la folta schiera degli amici e dei conoscenti che con lui intrattiene rapporti intrisi tanto di solidarietà “tipicamente russa”, quanto di spietata competizione per i cambiamenti in corso: l’amante Veronika, esponente dei democratici, compagna di lettere e di bottiglia («Scriveva poesie. Non underground puro, direi, ma più sul politico»); il deputato Dvorikov, presentato da Veronika, «riferibile al tipo dell’entusiasta onestamente stupido», che tenta di convincere Petrovič a pubblicare, ottenendone un orgoglioso rifiuto («egli pensava che gli underground fossero quelli che avevano sofferto per colpa dei comunisti e che adesso volevano ricevere la ciambella e il bicchiere di latte di loro spettanza»); i volontari dell’ordine pubblico, i druzinniki, «giovanotti dalle facce quadrate», che lo sbattono in cella per una notte; Ivan Emel’janovič e i medici psichiatrici a uso del potere («la siringa sostituiva vantaggiosamente lo sparo alla nuca»); il «piccolo uomo Tetelin», gogoliano «Akakij Akakievič redivivo», che muore per un paio di calzoni in tweed; la sarta (e amante) Zinaida; gli squattrinati pittori e scrittori underground «invalidi del ventennio brežneviano», partecipi di memorabili “bisbocce” alcoliche; Lesja Dmitrievna, ex del partito e amante di Petrovič nel breve periodo di disgrazia e riabilitazione («gli ex, le ex persone, una volta tagliati fuori dalle loro relazioni, sprofondano istantaneamente nell’indigenza»); il giovane Lovjannikov e il contante della nuova Russia.
Čechov è l’ultimo autore russo ad aver visto personalmente una vera struttura ospedaliera per malattie mentali. Gli altri non hanno fatto altro che insalivarne l’onesta esperienza, trasformando lo stesso Čechov in una chicca dolciastra che si passa di bocca in bocca. L’odore di menta li tradisce.
Consacrata al nume tutelare Dostoevskij, la parte centrale del libro percorre i corridoi della reclusione e dello sprofondamento psichico. A differenza di Venedikt, ormai confinato al reparto dei «tranquilli» (cioè sedati, inoffensivi), Petrovič viene assegnato al «reparto numero Uno», quello degli omicidi e degli stupratori. Lì, in una sorta di sfida con i medici che tentano di estorcergli la verità dalle budella, regredisce a uno stato catatonico simile a quello del fratello, ma è salvato dalla spessa scorza di vita che si ritrova addosso. Trova una via di salvezza nell’empatia per gli umiliati e offesi di quel «frammento della macchina statale» che è il manicomio:
Lo trascinavano senza fretta, per le spalle e per i capelli. Riscuotendomi ad un tratto, mi sono applicato nel mio training quotidiano di immedesimazione-compassione: mi ripetevo: gli fa male, molto male. E recriminavo contro me stesso: ma come? Forse che non mi riguarda? […] Un bel mattino ho avvertito un dolore acuto e perfettamente genuino battermi alle tempie: era il dolore, era la vita.
Uscito dopo strenua resistenza da quelle mura e rimessosi in sesto, Petrovič si scopre riabilitato presso gli inquilini della casalbergo e corteggiato dal “sosia” Zykov, ex underground ora scrittore di successo alle prese con le mollezze della fama, il quale lo vorrebbe vedere pubblicato. Tuttavia, compiuti la trasformazione socio-politica e il riequilibrio dei poteri, Petrovič rimane ancorato al proprio passato, attuando un definitivo movimento interiore di ascendenza rimbaudiana: «un altro», dice al guardiano che gli restituisce il documento d’identità, «il pasport è proprio quello. Ma io sono un altro». Così è chiara la diffidenza nei confronti del nuovo establishment culturale con cui vuole evitare ogni complicità:
Quando dopo i cambiamenti introdotti da Gorbačëv uomini dell’underground sono qua e là risaliti in superficie e hanno cominciato a riprendersi, a prendere, ad arraffare, a farsi un nome alla luce del sole, […] io sono invece rimasto io.
Fedele alla propria coscienza avulsa dal pensiero comune, Petrovič guadagna la statuaria corporeità e la vividezza di rappresentazione dei più grandi eroi letterari della tradizione russa (si apprezzi anche il pedale tematico della purificazione morale, del pentimento, del reciproco perdono, oltre alla centralità di certe figure femminili). In questa sottotrama di rapporti smaccatamente letterari, Makanin può fare sfoggio di eleganti e ironici omaggi, come nell’episodio dell’omicida Čirov: «niente di ciò che era umano gli era estraneo» (Terenzio); oppure in questo incipit: «Settembre attacca ragnatele agli alberi, segno di bel tempo» (Eliot); o ancora nel titolo del capitolo Scherzo di cane (Bulgakov). Proviene anche da qui quell’unitarietà stilistica che, nella fluida e briosa traduzione di Sergio Rapetti, corrobora il piacere della lettura: sollecitato il registro della satira, la voce narrante, forte dell’autorevolezza guadagnata, può con efficacia far proprie tonalità riflessive o accusatorie e snocciolare amari aforismi.
Vladimir Makanin, Underground. Ovvero un eroe del nostro tempo, Jaca Book, Milano, 2012, pp. 591, € 25.