di Massimo Cotugno
L’esordio della pellicola è immediato quanto coinvolgente: una luce verde che danza e splende nel buio, un volo sulle acque addomesticate e scure dello stretto di Long Island precedono l’ingresso di una voce fuori campo. Da un momento all’altro ci si aspetta di veder comparire un castello gotico, in cima a una vetta aspra e leggendaria.
Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann lo si attendeva come si attende un animale esotico, lievemente ridicolo, eccentrico, ma dai colori straordinari, qualcosa insomma da mostrare agli amici durante le feste importanti. L’impresa del resto si presentava ardua: trasporre in immagini un testo, quello di Fitzgerald, in cui l’azione fa solo da corollario a un simbolismo sottile, a una parola semplice ed evocativa, carica di allusioni e stratificazioni di senso. Ma se a una prima riflessione, la scommessa di Luhrmann sembra persa in partenza, gli si deve dare atto di aver forse colto una degli aspetti meno evidenti ma altrettanto fondamentali del romanzo americano, ossia la sua intrinseca teatralità, il suo essere essenzialmente una struggente ballata.
Lo scenario della vicenda, West Egg e la sua originale conformazione territoriale, si presta, del resto, a fare da palcoscenico naturale per questa tragedia a ritmo di charleston, in cui svetta come un anacronistico eroe romantico il misterioso Gatsby, interpretato da un Di Caprio specializzatosi ormai nel ruolo di uomo tutto d’un pezzo, che nasconde inaspettate fragilità. Il Gatsby del film, infatti, è un affascinate incrocio fra il conte di Montecristo, Charles Foster Kane di Quarto potere e… Dracula. Dai primi due attinge lo spirito esotico e misterioso, dal terzo l’aria crepuscolare, l’ossessione e la solitudine come condanna per chi fugge la luce del sole, nel caso specifico quella morale della verità. Come la più celebre delle creature della notte, il Gatsby di Luhrmann osserva e spia il suo vicino di casa, l’ignaro Nick Carraway, da una finestra della sua gotica magione, come un moderno Nosferatu farebbe con il suo Johnatan Harker. Vampiro emotivo e legato ad un passato mitico, Gatsby si aggira alle sue feste come uno spettro, alimentando la sua oscura fama, mentre un organo da chiesa suona tetro e solenne, confuso fra brani da discoteca, R’n’ B e Hip Hop.
Il regista delinea un protagonista che non è altro che l’incarnazione del sogno americano fatto di ascese vertiginose e di abissi insondabili, in una New York ubriaca di ricchezza e contagiata da una sospetta euforia; Gatsby risulta fuori luogo, eccessivo, irreale, persino goffo e manierato e il gusto per il barocco e il kitsch di Baz Luhrman sottolineano a dovere queste caratteristiche, donando a tutta la scena un’aria di artificio, di magnifica torta nuziale che sta per collassare sul pavimento. Di Caprio è perfettamente a suo agio in un ruolo non facile e quel sorriso fatale con il quale si presenta al pubblico in sala è la prova della sua padronanza. Non si può dire lo stesso degli altri attori, in particolare Tobey Maguire (Nick Carraway), impantanato in una recitazione che lo porta a replicare il Peter Parker di Spider Man, e la nuova musa del cinema d’autore americano, Carey Mulligan, nel ruolo di Daisy, quasi incerta nel dare al suo personaggio un’aria tragica oppure languida e frivola.
Le musiche, da Lana del Rey a gli XX, passando per Gershwin, alimentano l’ormai classica sensazione di straniamento dei film di Luhrman, dove tutto è apparentemente al proprio posto, ma in realtà ogni cosa è simulacro, illusione. Come la vita stessa del protagonista, un’esistenza inventata, fiabesca, che nulla ha a che spartire con il mondo dei nuovi ricchi newyorkesi, bellissimi, crudeli, annoiati e perfettamente inutili. Gatsby, come Satine in Moulin rouge, tenta di dare forma e sostanza al proprio impossibile desiderio, finendo inevitabilmente con l’essere sconfitto.
Nell’America ruggente degli anni Venti non c’è spazio per il passato e i ricordi, un avvenire eccitante lo sta definitivamente cancellando, mentre un uomo si aggrappa disperatamente a dei ricordi e a un mondo che non sono più condivisibili.
Ricchezza e complessità del testo originale vengono messi da parte, in un processo di scarnificazione dell’opera, che ne mostra l’ossatura semplice e potente di una ballata americana, ingenua ed autentica nel suo incedere.