Una domenica di maggio umida e imprevista, una grande poltrona dietro una portafinestra, un romanzo di un’altra donna. Che, per caso, finisce per svolgersi nello stesso periodo. A primo impatto lento e confusamente ricco dei personaggi delle famiglie intrecciate, per poi svilupparsi in modo lineare e pacato, e poi scorrere e scorrere da solo, fino alla fine.
È un racconto di sentimenti e non di azioni, di ricordi, pensieri e recriminazioni, è alternarsi di rievocazioni infantili e brevi lampi sul presente, sul quale si concentra e si dilunga solo una volta giunti al termine.
È la storia di due uomini narrata da una donna, una scrittura che rimane ugualmente femminile pur dando voce a due universi maschili, diversi e opposti tra loro per fisicità, reazioni e sensibilità, o semplice casualità delle vite.
Due fratelli da sempre costretti ad essere tali, vicini prima per caso e poi per volere altrui ma internamente lontani, che affrontano difficilmente l’infanzia insieme e in modo ancor più problematico gli anni successivi, che li vedono carichi di una rabbia e di un dispiacere che riescono a modellare rispettivamente in originali forme di arte e di studi.
Il nucleo narrativo è espresso nel titolo stesso, Figli dello stesso padre, fortemente esaustivo già da solo, che però non si esaurisce in sé ma è il pretesto per introdurre quelle donne che diventano al tempo stesso contorno degli uomini e vere protagoniste. È anche in questo che si avverte la mano della scrittrice, nella scelta di individuare nelle donne le figure forti del romanzo, fredde ma rassicuranti, generose e spensierate fino alla vecchiaia, amanti costanti dei loro uomini: del loro unico uomo e del loro unico figlio.
Una su tutte, la madre Edda, della quale rimangono le belle e argute conversazioni col figlio ormai grande sulla terrazza della casa romana che guarda il Tevere, sullo stabilimento balneare della abituale spiaggia primaverile, sempre sotto raggi che fanno chiudere gli occhi e ricordare il passato.
Di contro, rimane sullo sfondo la figura di un padre adorato e preteso, conteso e incompreso, che tuttavia non si lascia apprezzare da chi soltanto lo legge per la sua infantilità e superficialità, per gli scatti d’ira e l’incostanza, del quale non si riesce a cogliere, forse volutamente lasciato sfumato, l’irresistibile fascino che avrebbe portato bambini e adulte ad amarlo e odiarlo nello stesso tempo e a distanza spaziale, così come temporale.
Di un uomo che è stato più i suoi effetti che se stesso, le cui conseguenze sono palpabili e irrisolte a posteriori, ugualmente una volta che lui non è più; quelle conseguenze che i due figli si sono trascinati dietro durante e dopo di lui e che probabilmente, finale a parte, continueranno a portarsi addosso anche in seguito: “Cos’era, uno di loro doveva essere pronto a morire per lasciare spazio all’altro? Era per questo che si erano rincontrati? (…). La voce di tutti quei morti nati dalla mancanza di pace di suo fratello, la morte del padre riassunta in ogni quadro, la vera morte che nessuno vedeva. Per gli altri era decorazione, metafora, il gioco di un artista. Loro due, invece, si guardavano sapendo che la storia era un’altra” (pag. 259).
Il pregio del romanzo sta nel saper tirare fuori dalle righe argomenti di riflessione del singolo che fanno pensare anche l’interlocutore o semplicemente il lettore dall’altro lato della pagina, ad avere il tempo di soffermarcisi su.
“E’ il passato, Jenny, si tratta del mio passato. C’è sempre un momento in cui bisogna farci i conti. Mi ha invitato, no? È segno che ne ha bisogno anche lui”. “Ma chi l’ha detto che con il passato bisogna sempre farci i conti? Qualche volta non si può lasciarlo semplicemente dov’è?” (pag. 36).
“Per quel che la riguardava, aveva smesso da un bel pezzo di soffrire. Certo, prima aveva sofferto tanto, quasi una malattia. Ma poi di soffrire si era stancata. Ci si stanca quasi di ogni cosa, figuriamoci di tutto quel dolore” (pag. 64).
Il passato. Il dolore. Il tempo da dedicare a un sostantivo e ad un sentimento. E il tempo di dirvi basta.