di Andrea Cirolla
Non ho letto nessuna recensione dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, nessuna fino in fondo. Ho letto un lungo elenco di titoli, mi è arrivato un gran movimento, il dibattito sul film, tra chi l’ha visto (tanti, pare) e chi no (tanti quanti, pare), tra chi lo ha apprezzato (pochi) e chi no (molti, spesso stereotipicamente), tra chi ne ha gustato isolati “momenti di grande cinema” e chi ha sparato a zero.
Ieri sono andato a vederlo.
Non mi è piaciuto. Ho pensato a quei titoli. È vero, ci sono “momenti di grande cinema”. Poi ho pensato: cosa è un “momento di grande cinema? E: la tecnica e i mezzi possono, soli, produrre un “momento di grande cinema”?
Sorrentino ha prodotto immagini grandiose, non c’è dubbio. Ma quanto ha giocato la necessità in questa produzione? E quanto il mestiere? Ricordo una scena di un film di Nanni Moretti, credo Palombella Rossa: una ripresa dall’alto sullo spogliatoio di una piscina; una serie di mamme che asciugano i capelli ai loro bambini con un panno bianco, contemporaneamente, ogni coppia in uno scompartimento, ognuna chiusa e separata dall’altra nella visione dal basso, ma aperte tutte, tutte riunite nella visione verticale del regista. Ricordo questa scena di un film di Nanni Moretti. Una scena grande. Sobria e semplicemente grande. Nata dalla nostalgia, dal ricordo, generata dall’intreccio di un film informato dalla poesia.
La grande bellezza è parimenti un film colmo di immagini grandi. No, parimenti no. E nemmeno grandi. È un film colmo di immagini grandiose, al punto di traboccare, al punto di sembrare per la prima ora e mezza un trailer (questa cosa l’avevo letta da qualche parte: la confermo) o un videoclip composto da un elenco di pose buone e meno buone (le meno buone vorrebbero essere provocanti e freak, forzatamente enigmatiche e simboliche, di simboli che rimandano poi a non si sa ché); e, per l’ora successiva, un ventaglio di finali plausibili (anche questa l’ho letta da qualche parte, credo, e anche questa la condivido), di cui il primo è il più felice, e chiuderebbe il cerchio di un film che invece continua, finendo per girare a vuoto, agitando una lunga coda che balla, balla e balla e non sa dove andare a sbattere, se non sullo stesso tasto del primo finale, ovvero su una ripetizione, annacquando, contenendo sviluppi poco convincenti per non dire altro, e su tutti lo sviluppo ennesimo e ennesimamente a vuoto del tema sacralità/mondanità, col personaggio della “Santa” interpretato da Giusi Merli: piatto, poco o per niente credibile.
Anche la colonna sonora replica questa dialettica, persino fisicamente coi due cd su cui è stata raccolta e pubblicata: il secondo pop e il primo sostanzialmente dedicato alle musiche “colte”, sacre perlopiù, breve campionario del minimalismo europeo (per tornare alla circolarità di cui sopra: forma perfetta, forma cercata ma mancata da questo film). Tra gli altri compositori: Vladimir Martynov, Arvo Pärt, Henryk Górecki, Zbigniew Preisner (celebre collaboratore del grande Kieślowski) e pure Pérotin (1160 ca.–1230 ca.), virtuoso e tra i capostipiti della polifonia, la cui opera è senza dubbio alla base di tutto il filone evocato (sicuramente della musica di Arvo Pärt). Da qui tanta suggestione, ma anche il sapore di un inconsapevole esagerare, di un compulsare archivi di suoni e di immagini senza mai scivolare nella profondità.
Ma pure “la parte della mondanità”, dico per tagliare corto, non supera la mera rappresentazione di uno scenario.
Insomma, mi è parso di vedere, lo dico con una definizione brutale ma forse efficace, un remake di Somewhere di Sofia Coppola in salsa felliniana, con un occhio verso la magniloquenza di The Tree of Life di Malick. Ma se Somewhere riusciva a raccontare il vuoto della società dello spettacolo hollywoodiana senza farsi contagiare, opponendogli il pieno dell’opera cinematografica, La grande bellezza contrae lo stesso male della realtà (romana) che racconta, rimane una costruzione paratattica, una sequenza di immagini che non produce racconto e non trova spessore, una vittima della volontà di grandezza di cui soffre anche il film di Malick.
C’è una crisi dei valori: della società, della politica, della Chiesa, della letteratura, dell’editoria, del cinema. Sì. La risposta della letteratura, dell’editoria, del cinema è sempre più: raccontarla. C’è chi racconta. C’è chi racconta e nel racconto tenta di rilanciarsi sopra quella. Sorrentino col suo film si è inserito nel secondo gruppo. Forse convinto di superare la finta grandezza del mondo dello spettacolo – impalcato su trucco («è solo un trucco!» ascolta e ripete Gambardella), trucco e finzione – di superare la finta grandezza, dicevo, con lo sfarzo e una maestosità estetica tutta basata su imperiose scenografie e una fotografia d’impatto, il regista cade, frana su un’idea erosa dal suo stesso farsi pellicola, un’idea che si sfoca ed evapora piano piano, progressivamente, fino a scomparire, lasciando me spettatore con in bocca un grande «mah».