di Giacomo Raccis
Piero dice: «Se volessi restare sette volte sotto un tram e non morire, ci riuscirei. La volontà è tutto» (48); Moraldo pensa: «la soluzione sarebbe perdere tutto questo, nel mercato del mondo, fino a scomparire, non avere più un nome, una necessità, non dover più essere qualcuno» (43). Piero e Moraldo, due ventenni nella Torino all’alba del fascismo. Non si conoscono. O meglio, Moraldo, studente in cerca della propria raison d’être, sa chi è Piero e vorrebbe conoscerlo; Piero invece lo ignora, preso da vicende private e pubbliche che lo spingono lontano dalla sua città. Piero, agli occhi di Moraldo, è l’incarnazione di un vitalismo giovanile splendido e spavaldo: l’irriverenza con cui interrompe le lezioni dei vecchi professori universitari è pari solo alla decisione con cui si getta nelle braccia del futuro, sicuro della propria vittoria. Moraldo lo guarda con quel misto di odio e ammirazione che si riserva solo a chi è, nello stesso tempo, modello e avversario. Dietro quella facciata di disinvolta sicumera, in realtà, Piero nasconde un travaglio psicologico dovuto a un doppio assillo: da un lato ci sono le conseguenze della battaglia che ha deciso di intraprendere, dalle pagine della sua rivista, contro i soprusi fascisti, le minacce, la violenza e una solitudine che fa vacillare continuamente i suoi progetti; dall’altra la responsabilità, lo smarrimento e la paura di una paternità imminente, che portano questo giovane uomo a mettere in dubbio tutte le proprie certezze nel momento in cui è chiamato a rinsaldarle per crescere una nuova vita.
Le vicende di Piero e Moraldo fanno di Mandami tanta vita un romanzo di doppia e complementare formazione, in onore a un genere che sembra trovare parecchi favori tra i giovani narratori italiani (basti pensare, tra i tantissimi, a Le ossa del Gabibbo, di Virginia Virlli o alla Cospirazione della colombe di Vincenzo Latronico). Paolo Di Paolo torna sul tema dopo il successo di Dove eravate tutti, romanzo che era stato etichettato non senza complicazioni come “generazionale”; in quest’occasione, però, viene meno apparentemente quel filtro d’immedesimazione che aveva reso tanto problematica per l’autore e per i suoi commentatori la figura di Italo Tramontana. Il suo posto adesso è occupato da due personaggi, Moraldo e Piero, che sono peraltro messi a distanza dalla cornice storica che inquadra il racconto.
Dopo un incontro iniziale, fortuito e per di più asimmetrico (Moraldo riconosce Piero, che invece ne ignora l’esistenza), le loro vicende procedono lungo due binari vicinissimi eppure sempre separati fino a che, nel finale, quasi a definire la parabola di una lunga ellisse, nuovamente i loro cammini si incrociano (e sarà ancora una volta solo Moraldo a riconoscere, su una panchina dei Jardins de Luxembourg a Parigi, un Piero precocemente invecchiato e in fin di vita). In mezzo si dispiega la storia di un inseguimento e di una fuga mai sincronizzati tra loro. Moraldo si dibatte nei turbamenti di un’adultità che stenta ad arrivare, tra una mancata emancipazione dalla famiglia provinciale e piccolo-borghese e la ricerca di un’identità intellettuale e psicologica che ogni occasione sembra irrimediabilmente frustrare. Piero invece è già chiamato a fare scelte decisive, abbandonare la famiglia proprio nel momento in cui un nuovo arrivato vi fa il suo ingresso e rifugiarsi a Parigi, al riparo dalle angherie squadriste e alla ricerca di nuova linfa per ricominciare la propria attività politica e culturale. Due caratteri complementari, che proprio in virtù di quel meccanismo di emulazione e ammirazione che spinge Moraldo sulle tracce di Piero appaiono a chi legge inconciliabili e distanti.
E invece Di Paolo, come in una tela impressionista, ci mostra come quei contorni che alla distanza apparivano netti siano in realtà più sfumati e come dietro una distesa di colore apparentemente omogenea si nascondano tanti puntini del colore opposto. La tenacia e la freddezza che Piero dimostra in pubblico sono in realtà l’altra faccia di un’intima fragilità che solo la comprensione della moglie Ada e la quiete domestica riescono per qualche momento a medicare. Moraldo, invece, ultimo della stirpe dei Mattia Pascal e dei Vitangelo Moscarda, di tutti quei personaggi che nello sguardo dell’altro cercano un riflesso della propria identità, riesce a intraprendere un cammino di maturazione, aiutato da una ragazza che gli insegna a “fotografare” e a farsi fotografare, a concedere all’altro qualcosa di sé, ma anche a tenersi per sé, dell’altro, qualcosa che contribuirà a costruirne l’esperienza. I caratteri di Piero e Moraldo continuano a mostrarsi distanti, le domande che si pongono sono diverse, eppure ci accorgiamo che le risposte che la storia e la vita li invita a trovare sono in definitiva le stesse.
Dietro di loro, intanto, si agita la Storia: una storia che passa per Torino prima e per Parigi poi. Di Paolo riesce a dare uno statuto di personaggi a queste due città che non si limitano a fare da sfondo alle vicende di Piero e Moraldo, ma dialogano con loro. In particolare Torino, animata dai colori del carnevale, dai rumori dei carri e dei tram, dagli odori dell’inverno e dei caffè. Nella grande città, che sarà presto culla di cultura e antifascismo, la propaganda di regime è arrivata a corrompere anche lo spirito degli amici più cari: come Amedeo, che in preda a un conato di vomito, confessa al compagno Moraldo l’euforia e l’orrore di un omicidio squadrista. Tra le vie e le piazze, i cui nomi risuonano pagina dopo pagina a tracciare una mappa dello spirito più che della Storia, si agitano le esistenze di tante persone come Piero e Moraldo, che solo una coincidenza o un accidente del caso non consegnerà alla memoria collettiva. Le storie della borseggiatrice Martinengo Teresa, o di Luciano, che ha salvato un ragazzino da sotto una carrozza, o ancora dell’infelicissima Mariannina, morta sulle piste da sci, sono simili a quelle di tanti altri, compresi i Norberto Bobbio, i Giacomo Debenedetti o i Piero Gobetti che in quegli stessi mesi, in quegli stessi giorni vivono nella medesima città. Le loro vicende, tuttavia, rimarranno cibo semplice per la voracità senza passato della cronaca, mentre quelle dei loro più nobili parenti troveranno spazio nei libri, nelle storie nazionali e saranno ricordate. Eppure, quando lo sguardo storico (quello stesso che assillava il giovane Italo Tramontana di Dove eravate tutti) non ha ancora maturato la giusta distanza dagli eventi, tutte quelle storie valgono allo stesso modo, e solo in virtù dell’atmosfera, dell’epoca, della “vita” che portano con sé. È per questo che Di Paolo non ha voluto esplicitare per tutto il romanzo la vera identità del personaggio di Piero e rivelare solo nella Nota finale che dietro quel nome si cela, tra fedeltà biografica e opportune rielaborazioni romanzesche, la figura di Piero Gobetti. Chi legge deve guardare e rivivere la sua vicenda con lo stesso sguardo di chi non conosce ancora quali sofferenze e quali tardivi onori gli riserverà la Storia. Di Gobetti contano allora più le lettere scritte ad Ada e agli amici, che i proclami e le battaglie della sua figura “pubblica”. La sua vocazione rivoluzionaria interessa solo per la desolante solitudine in cui si brucia progressivamente.
In questo senso Moraldo e Piero sono simili, due nomi e due esistenze tra le tante che hanno fatto un’epoca. Ed è proprio quell’epoca, con tutta la vita che la innerva, che Di Paolo ha voluto ricomporre. Anche per questo motivo la trama è tanto esile: a contare non sono gli eventi, i fatti, le relazioni di causa-effetto, bensì i rapporti umani, i sentimenti, al limite anche le atmosfere in cui quelle esistenze hanno luogo. La scrittura di Di Paolo prova a riportare alla luce tutto quell’indefinito che la storia e la memoria condivisa obliterano definitivamente: le frustrazioni quotidiane, le attese riposte in una lettera, l’emozione di un incontro imprevisto. E contro le pericolose derive di un intimismo stucchevole Di Paolo riesce a ricondurre i caratteri di questa narrazione sotto uno stretto vincolo di necessità, quello che lega il tema di un libro all’identità del suo autore.
Di Paolo infatti è riuscito nell’intento di rinnovare la propria scrittura, di renderla più corposa e connotata (grazie anche a una notevole capacità figurale), rimanendo fedele a un rovello tematico ed esistenziale che evidentemente non era stato esaurito dal precedente romanzo. A dichiarare il suo forte attaccamento per quel processo di definizione dell’identità individuale che la nostra società rende sempre più complicato, non è solo l’età anagrafica dei protagonisti o il carattere “generazionale” dei problemi in cui si dibattono, bensì l’ambiguità della voce narrante che riporta le loro vicende. In una sorta di discorso indiretto libero prolungato, il narratore dialoga con Piero e Moraldo condividendone punto di vista e inquietudini – quasi fosse la loro coscienza –, ma anche, nei momenti opportuni, prendendone le distanze, mostrandoceli dal di fuori. Sono in particolare le domande, le continue interrogazioni a cui i due vengono sottoposti che lasciano trapelare la presenza emotiva dello scrittore: l’insistenza con cui queste intervengono a scandire l’evoluzione psicologica dei due ragazzi segnala un coinvolgimento che va oltre le semplici ragioni narrative. Attraverso questo serrato dialogo tra l’autore e i propri personaggi, la giovinezza assume i contorni di un’età difficile, esuberante e malinconica al tempo stesso: il momento in cui tutti i futuri si mostrano ancora potenzialmente realizzabili si ribalta inesorabilmente nell’immagine di un tempo spietato, dove ogni scelta sancirà un chiusura, una possibilità mancata. Nell’impossibilità di immobilizzare il presente e, allo stesso tempo, nell’incapacità di prevedere il futuro si brucia la sfida e la bellezza di quest’età.
Di Paolo continua a muoversi su questo precario confine, tra apertura e chiusura. Lo fa con una consapevolezza sempre maggiore, forte di una scrittura che ha saputo far tesoro degli insegnamenti dei maestri (su tutti l’amato Tabucchi, le cui domande sull’impegno e sulla dignità dell’intellettuale riecheggiano ancora), ma soprattutto mostrando i caratteri di una maturità, questa sì, finalmente conquistata.
Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 160, 13€