di Giacomo Raccis
Antonio Scurati, qualche anno fa, concludeva un suo breve saggio sulla Letteratura dell’inesperienza invitando tutti gli scrittori a scrivere i propri romanzi come fossero dei romanzi storici. Ne faceva una questione di posizionamento di chi scrive rispetto al proprio ambiente sociale: non si trattava necessariamente di parlare di epoche storiche lontane, di vicende dimenticate o di riscritture di verità arcinote.
Ad ogni modo, non si può dire che quell’esortazione non sia stata seguita. Anzi. Come anche un recente volume di Giuliana Benvenuti sottolinea, oggi il romanzo storico vive in Italia una nuova giovinezza. Se mai ne avesse avuto bisogno, si potrebbe chiosare. Perché a ben pensare la sua fortuna, nella nostra storia letteraria, è piuttosto continua che frammentaria. Dopo che toccò a un romanzo storico inaugurare la modernità letteraria del nostro paese (i sempre più vituperati Promessi sposi), è stato tutto un fiorire di “romanzi misti di storia e d’invenzione”, per dirla con Manzoni: la scrittura narrativa veniva chiamata ora a confermare, ora a contraddire le varie vulgate storiche. Ed ecco così i Nievo, i De Roberto, i Pirandello (quello dei Vecchi e i giovani, non notissimo), fino a Tomasi di Lampedusa.
Quattro autori centrali nella letteratura nazionale che recuperano, da prospettive analoghe (fatto salvo il non siciliano Nievo), un medesimo evento storico: il Risorgimento, interpretato tra l’altro come beffarda illusione di cambiamento. Solo che uno dei quattro, il principe di Lampedusa, con Il gattopardo edito da Feltrinelli nel 1958, scriveva dopo che un altro grande fatto storico si era posto in concorrenza nella grande corsa al ruolo di evento cardine dell’identità razionale: la Resistenza. Ecco il perché (anzi, uno dei perché) di tutte le critiche che quel libro raccolse: appariva fuori tempo massimo, in un momento in cui l’orizzonte storico si era approssimato alla prospettiva degli scrittori tanto da arrivare a coincidere praticamente con il presente dell’esperienza.
Il neorealismo, che solo un’interpretazione distorta potrebbe leggere come un’esplosione di romanzi storici, mostrò comunque che c’erano nuovi miti e nuove storie su cui gli scrittori potevano concentrare la loro attenzione, altrettanto vere o plausibili, ma soprattutto depositarie a pari titolo della vita e della verità del popolo italiano. Eppure, se si fa parziale eccezione per Giuseppe Fenoglio – che fu comunque un figlio della Resistenza langarola e delle sue contraddizioni -, dalla metà degli anni Cinquanta per gli autori italiani si dischiudono nuovi orizzonti di scrittura della storia, sia in quanto a temi, sia in quanto a epoche recuperate: autori come Luciano Bianciardi ed Emilio Tadini decidono di tornare al Risorgimento ma per farne una cosa completamente diversa da quella che fu (si leggano Aprire il fuoco per il primo e Le armi l’amore per il secondo), mentre altri, come Leonardo Sciascia, Guido Morselli o Vincenzo Consolo, decidono che è finalmente giunto il momento di guardare oltre gli sten difettosi dei partigiani e i fazzoletti rossi dei garibaldini.
In questa lunga serie positiva, solo gli anni Settanta rappresentano un momento di sofferenza per il romanzo storico italiano; ma il dato viene subito ridimensionato se si pensa che il ’68, le grandi battaglie sociali e culturali, la successiva stagione del terrorismo rosso e nero schiacciano l’attenzione sull’attualità, riducendo le vendite e la produzione di romanzi in termini assoluti. Con l’inizio degli anni Ottanta, invece, si apre quella serie fortunata che arriva dritto fino a noi: il 1980 è l’anno del Nome della rosa, romanzo-emblema del postmoderno nostrano, ricco di storia tanto quanto di inafferrabili anacronismi, a rivendicare le libertà della letteratura nei confronti di una passato che nemmeno gli storici sembrano riuscire più a ricostruire obiettivamente. A partire dal best-seller di Eco ha inizio quello che è stato definito un revival del Medioevo in letteratura e che, attraverso mediazioni e deformazioni fin troppo comprensibili (purtroppo!), arriva fino ai Dan Brown o, per stare alla nostra provincia, ai Marcello Simoni. Non c’è alcun interesse critico, né alcuna istanza identitaria che spinga a ritornare agli anni bui degli scontri tra guelfi e ghibellini e delle crociate, ma solo la volontà di sfruttare un’atmosfera di mistero indecifrabile, al limite del fantastico, che aleggia irrimediabilmente su fatti ed esperienze, vere o fittizie non importa, che sembrano troppo lontane a chi legge per poter essere sottomesse a qualsiasi criterio di verificabilità.
Se nei confini del genere questa è l’offerta media dei banconi e delle vetrine della librerie, tuttavia, bisogna anche riconoscere che il romanzo storico italiano – quello di un certo livello s’intende – conosce almeno da una decina d’anni a questa parte un interessante risveglio per quanto riguarda soprattutto la varietà degli orizzonti chiamati in causa. Per restare ai modelli evocati dalla Benvenuti, da una parte i romanzi di Scurati, interprete di una storia vista dalla prospettiva della sua fine, hanno raccontato l’inizio dell’età moderna attraverso l’avvento della guerra con le armi da fuoco (Il rumore sordo della battaglia), ma anche l’eroismo romantico delle cinque giornate di Milano (Una storia romantica); dall’altra i romanzi dei Wu Ming, già Luther Blisset, ci hanno fatto conoscere, sempre dalla prospettiva di deboli e perdenti, l’età della riforma protestante (Q), un 1954 di intrighi internazionali (54), la rivoluzione americana (Manituana) fino ad arrivare, nelle prove più recenti e “individuali”, a un’esplorazione sempre più marcata del rimosso coloniale (Timira, ma anche Point Lenana). Come a dire, la storia della nostra civiltà è tanto lunga e ricca di buchi neri che chi decida di scrivere un romanzo storico non ha che l’imbarazzo della scelta.
Invece, non devono averla pensata così Vanni Santoni e Gregorio Magini, brillanti ideatori del metodo SIC (Scrittura Industriale Collettiva), un lambiccatissimo e gerarchizzato modello di distribuzione dei compiti e organizzazione dei lavori, mirato a produrre un romanzo collettivo tra membri di una comunità che non necessariamente interagiscono tra loro. Quando infatti i due toscani hanno deciso di mettere alla prova il loro metodo con una scrittura ampia e ambiziosa – dopo alcuni esperimenti più o meno riusciti sulla misura breve del racconto -, dovendo trovare una materia romanzesca che facesse da minimo comune denominatore tra tutti gli aspiranti autori (115 sono quelli coinvolti nell’intero processo), non hanno avuto dubbi: la II Guerra Mondiale e la Resistenza. È nato così il progetto di In territorio nemico (minimum fax): comporre la trama del romanzo a partire da una raccolta di testimonianze, ricordi, aneddoti e letture sulle vicende di quel passaggio storico è sembrato il modo più facile e pratico di arrivare a creare un repertorio di situazioni e scene sulle quali lavorare per creare la storia.
Il contesto di “supremazia del metodo” (approfonditamente spiegato qui) entro cui si colloca la scrittura SIC è ben lontano, e anzi “oppositivo” rispetto al modello “assembleare” che negli ultimi quindici anni i Wu Ming hanno rappresentato. Tuttavia dalle formulazioni teoriche del collettivo bolognese sembra essere suggerita la prospettiva epica (o “new epic”) che orienta la narrazione di In territorio nemico; e sempre da quella sponda deve provenire l’idea di dedicarsi a un racconto, un mito verrebbe da dire, che risulti indiscutibilmente identitario (nonostante i tentativi più o meno raffinati di rivisitazione in corso oggi, dal solito Pansa all’inaspettato Luzzatto), capace forse di chiamare in causa uno “spirito di unità nazionale” che superasse anche le rigide barriere che il metodo SIC eleva tra un autore e l’altro.
La trama che questo elaborato modello di scrittura ha prodotto è presto detta. La Resistenza viene raccontata, da una tradizionale voce narrante in terza persona, attraverso le vicende di tre personaggi legati tra loro ma fino alla fine mai contemporaneamente in scena. C’è Matteo Curti, arruolato nella marina, che l’8 settembre, al momento dell’armistizio, un po’ per caso e un po’ per opportunità abbandona la nave su cui è imbarcato, si dà disperatamente alla macchia e inizia una lunga fuga verso nord, dove spera di ricongiungersi con la sorella. Adele infatti, catanese di nascita come il fratello, si è da poco trasferita prima ad Asti e poi a Milano per andare a vivere con il marito, Aldo Giavazzi. Lui, ingegnere meccanico, progettista aeronautico alle Officine Caproni, abbandona improvvisamente il lavoro per rifugiarsi nel casolare materno, nel basso Lodigiano, con il timore di essere stato segnalato alle autorità per una sua certa “irrequietezza”. Così Adele, tipica figlia di un Meridione aristocratico, educata a servire il marito e a pensare alla casa, si ritrova sola di punto in bianco e deve trovare un modo per tirare avanti.
Le tre storie procedono, a capitoli alternati, lungo i loro prevedibili binari: Adele, infatti, spaventata e scossa dalla visita della polizia segreta repubblichina, capisce che il suo destino non può passare per la reclusione nella casa sempre più spoglia. L’incontro con la folla, con la gente della strada, donne e vecchi in fila per l’annona diventa il suo svezzamento alla vita urbana in tempi di guerra, dove la miseria e la fame si fanno sentire, ma un po’ meno se sono condivise con chi è nelle stesse condizioni. Di qui in poi la strada è segnata per lei: prima il lavoro come operaia alla Olap, poi l’incontro con una collega partigiana e l’inizio dell’avventura come staffetta per le missioni dei GAP milanesi. Il ricordo del marito, lontano chissà dove, non è scomparso, ma sembra aver trovato una certa compensazione nella soddisfazione che dà dedicarsi alla causa della Resistenza. Un destino simile spetta al fratello Matteo. Il suo viaggio di sbandato deve compiersi necessariamente sotto la soglia di guardia dei militari tedeschi ancora attestati nel centro Italia: è quasi inevitabile che la sua ricerca di passaggi verso nord incroci luoghi e piste della resistenza partigiana. Prima quella anarchica tra le Apuane e la Lunigiana, poi quella azionista e comunista insieme nel Monferrato: Matteo partecipa alle azioni con il pensiero sempre rivolto al ricongiungimento con la sorella, ma matura pian piano la propria autonoma coscienza politica, che ne fa un partigiano abile, scrupoloso e un poco disilluso. A far da contrappunto a queste due classiche storie di risveglio identitario per una causa di libertà e giustizia, c’è la vicenda di Aldo, tutta chiusa tra le mura della cascina Giavazzi: qui infatti si compie la parabola della sua paranoia, fomentata dalla paura di essere scoperto e portato in campo di concentramento e deflagrata nel momento in cui la madre muore, privandolo delle cure che ne avevano prima allietato la “resistenza”. Finisce pazzo, Aldo, trovato in fin di vita da soldati americani, ma con gli occhi spalancati a fissare fantasmi che non abbandoneranno più la sua mente.
Se pure questa terza pista segna una nota singolare nell’affresco realizzato dal collettivo di scrittori (e anzi ci si può rammaricare che nel complesso della vicenda non le sia dedicato uno scavo maggiore), non si può dire che la rappresentazione nel suo complesso spicchi per originalità. Per quanto si possa rendere merito all’acribia storica e nozionistica con cui gli autori, supportati dal ricco pool di revisori, hanno ricostruito tutte le sfaccettature di quel delicato frangente storico (il ruolo delle donne, quello degli anarchici, le parlate dialettali, le minuziose ricostruzioni topografiche di paesaggi urbani e naturali), non bastano certo questi caratteri a qualificare il valore del romanzo. Per lo stile, che appare piatto e retoricamente scontato, uniformato al ribasso nella necessaria omologazione delle diverse scritture, si può concedere un alibi (per quanto pesi farlo): appare sostanzialmente irrealizzabile l’idea di creare una lingua collettiva espressivamente connotata. Ma lo stesso sconto non lo si può concedere per l’invenzione: i ritratti dei cinici ufficiali fascisti che sfogano nella violenza bruta le proprie frustrazioni personali o quelli di partigiani burberi ma dal cuore buono non arricchiscono né rinnovano il repertorio già vasto del racconto sulla “guerra civile” italiana.
Qualcuno ha definito il romanzo «un’epitome della Resistenza»: più che un riconoscimento dell’attento sguardo con cui gli autori hanno provato a raggiungere tutte le ramificazioni di quell’evento, si deve riconoscere nella formula uno smascheramento della tipicità (lukacsiana nel senso più potente) della rappresentazione. In territorio nemico come una raccolta dei luoghi comuni della Resistenza. Altri hanno osservato che alcuni passaggi della narrazione lascerebbero trapelare lo sguardo ex post di chi ha scritto, ovvero le decine di autori del 2013 che raccontano eventi di sessant’anni prima di cui conoscono già l’epilogo. E qui forse sta il punto. Al di là di qualche comprensibile défaillance narrativa, sviste giustificabili e che non mettono in discussione la riuscita “tecnica” del metodo SIC, quel che più colpisce è l’impressione di una narrazione di secondo grado, non tanto perché collocata a distanza rispetto ai fatti raccontati, ma in quanto esito della rielaborazione di esperienze ampiamente canonizzate del racconto storico. È difficile ipotizzare che tra quanti hanno preso parte al progetto di scrittura collettiva ci sia qualcuno che abbia potuto vivere direttamente, se non quei fatti, quantomeno le loro ripercussioni sulla vita civile, sociale e culturale dell’Italia del dopoguerra. È quindi inevitabile che l’esperienza che produce la scrittura sia mediata da altre scritture, da altre letture e non riesca a smarcarsi dai topoi della vulgata classica.
Nel lavoro di continua mediazione necessario per la composizione del romanzo collettivo il massimo comune divisore diventa un minimo comune multiplo: vicende eccentriche, storie originali, punti di vista singolari vengono limati fino a coincidere con un profilo piatto, che potrà anche essere l’esatto prodotto della media tra i fattori, ma di certo non restituisce l’effetto delle variazioni altimetriche dell’esperienza storica, individuale e collettiva.
Tanti di questi difetti sono forse connaturati a una struttura di organizzazione del lavoro che non permette l’emergere della differenza, della nota singola. Ma a monte c’è stata forse una scelta tematica che non ha prodotto quel che si sperava. La Resistenza, da evento cardine, campo di facile incontro tra le diverse storie ed esperienze italiane, si rivela il vero “territorio nemico” della scrittura.
SIC, In territorio nemico, minimum fax, Roma 2013, pp. 308, 15€