Di recente, grazie al lavoro della Balena, abbiamo potuto seguire da vicino l’importante Festival della letteratura di Mantova. Confesso però che sono personalmente contrario a questo genere di iniziative; anzi trovo che la proliferazione dei festival sia l’indice della trasformazione di attività culturali – che diversamente non avrebbero altrettanto seguito – in circuiti economici. Cercherò di articolare le mie osservazioni rivolgendomi in particolare al Festival della filosofia, quanto meno per la maggior attinenza dell’argomento alle mie esperienza e competenze. Se poi vorrete ampliare queste riflessioni anche alla molteplicità di altri festival che si tengono in Italia (scienza, economia – un festival al quadrato –, diritto – un festival del diritto?! –, mente, lavoro), siete liberi di farlo.
Da ragazzo ero solito organizzarmi e passare uno o due giorni al Festival della filosofia di Modena. Ricordo che era il periodo compreso fra gli ultimi anni di scuola superiore e i primi due anni di università. Ammetto che oltre al desiderio di ascoltare le dotte conferenze dei relatori, la discesa nella bella città di Modena era l’occasione ideale per vedere alcuni amici e ingozzarmi di tigelle. Erano motivazioni abbastanza banali ma comunque accompagnate dal sincero entusiasmo di un neofita della filosofia, che finalmente poteva dare corpo a pensatori e sentire filosofare in una piacevole cornice pubblica.
“Sincero entusiasmo” credo sia l’espressione esatta per descrivere il mio stato d’animo di allora. Dopo qualche anno ho scelto di smettere di parteciparvi. Quello che non mi convinceva e che non mi convince più è l’accostamento della parola “festival” con quella di “filosofia”.
Da giovane imberbe credevo che la filosofia fosse davvero una disciplina bellissima; ora, dopo averla studiata per un congruo numero di anni, sono certo che la filosofia sia una disciplina fondamentale per l’essere umano, ma questo non significa che essa sia bella né, tantomeno, che essa debba essere accattivante per il grande pubblico o bisognosa di festeggiamenti particolari. La tesi di fondo che vorrei sostenere è che ciò che al festival viene presentato non è filosofia, bensì altro, difficilmente definibile.
Oggi posso vedere un fugace episodio di anni fa come l’emblema del mio germogliante disinteresse per il festival: stringendo a sé un libro di un noto filosofo italiano, una signora elogiava il suddetto pensatore per la semplicità disarmante della sua conferenza pubblica, appena conclusasi. Da guastafeste ipotetico, pensai che quel libro che aveva in mano l’avrebbe potuto acquistare in qualunque altra occasione ed in qualunque libreria, non essendo particolarmente raro. Ovviamente non nutro rancore nei confronti di quella signora: ognuno è libero di interessarsi a quello che vuole quando vuole; anzi, forse dovrei ringraziarla per avermi permesso di esaminare la mia presenza in quel contesto.
La filosofia possiede una decisiva dimensione pubblica che è fuori di dubbio, ma ciò significa che essa si debba rivolga alle masse? La filosofia serve alla vita quotidiana di tutti noi? Ci si può sinceramente interessare alla filosofia per due o tre giorni all’anno? Io credo che il Festival della filosofia sia dominato da un malcelato imbarazzo e da una sincera ipocrisia. L’imbarazzo sta nella consapevolezza che la filosofia (come naturalmente tutte le discipline) sia difficile e che, anzi, consista essenzialmente nello svelare quanto siano complicate le cose. L’ipocrisia sta invece nel voler far finta che in fondo l’ascolto di tre o quattro conferenze di dotti filosofi possa fornire ai loro ascoltatori un piacevole sollazzo e pure qualche risposta a buon mercato ai grandi problemi dell’esistenza. Infine, dovrei aggiungere un’ulteriore ipocrisia fondamentale che mi limito ad evocare: richiamando molte persone, il Festival della filosofia è un successo tutti gli anni, eppure nella sua vera veste l’interesse generale per chi “fa” il filosofo è piuttosto scarso (ricordo un simpatico edicolante di montagna interpellare un suo cliente commentando così un articolo di giornale: «quello fa il filosofo, hai capito? Cosa fa, lui? Lui scrive libri e pensa!» – praticamente una bestemmia). Allora ciò che permette il successo di questa manifestazione va ben oltre la semplice presenza della filosofia.
A mio avviso, il problema è che si trasmette alle persone l’idea che i filosofi abbiano pronto un archivio di risposte confezionate nei lunghi anni di studio e che il festival sia l’occasione per succhiare da loro un po’ di quelle soluzioni per l’esistenza. Eppure, diceva un adagio, è meglio dubitare di un filosofo che sa di sapere: questo perché la filosofia raramente offre risposte. Supportato da opinioni autorevoli, al contrario della mia, sono convinto che la filosofia sia più un modo di porsi di fronte al mondo, un continuo metterlo in questione prendendosi pure il rischio di ritrovarsi senza più la terra sotto i piedi. Per questo non credo che la filosofia offra risposte, tantomeno risposte per la vita. Diceva qualcuno che il pensiero critico è nemico della vita, perché ne mette in discussione il normale scorrere; altri sostengono invece che la norma sia non pensare e che il pensiero teoretico (la filosofia) sia in fondo un segnale di disturbo nell’ovvia normalità dell’esperienza: come una crepa nel muro o la spuma delle onde, un fenomeno superficiale. Addirittura Fichte scriveva: «Leben ist ganz eigentlich Nicht-philosophieren; Philosophie ist ganz eigentlich Nicht-Leben», «Vivere è propriamente non-filosofare; la filosofia è propriamente non-vivere».
Le tesi qui evocate non aspirano a farci scappare inorriditi dai filosofi. L’incontro e il dialogo con uno di essi dovrebbe invece spingerci a interrogarci radicalmente su noi stessi e quel che ci circonda – attività né piacevole né bella, e che ancor meno dovrebbe portarci a organizzare un festival al riguardo.
Per concludere penso che la vetrina del Festival della filosofia sia dannosa, da una parte, per la filosofia perché la banalizza in un miscuglio di ragionamenti adatti ai tempi che corrono, risultando quindi senza profondità; d’altra parte, tale organizzazione è anche dannosa per il concetto stesso di “festival”, perché qualcuno potrebbe decidere un giorno di fare un intervento intitolato Ha senso il Festival della filosofia? rispettando perfettamente i criteri di razionalità richiesti. E alla conclusione non ci sarebbe niente da applaudire.