4 novembre 2013, Restaurant Drouant, Parigi: la blasonatissima giuria dell’Académie Goncourt – fondata nel 1903 e da quel dì instancabilmente attiva – scende la scalinata che conduce alla sala principale del ristorante e, foglietto alla mano, proclama il vincitore del premio Goncourt 2013: ovvero, Pierre Lemaître, autore di Au revoir là-haut.
L’editore, Albin Michel, manda in stampa centinaia di migliaia di fascette pronte ad avvolgere la copertina del nuovo libro del sessantenne scrittore, nome di punta del polar francese (in Italia sono usciti in traduzione Alex e Lavoro a mano armata) e (anche per questo) indicato come vincitore fin dalla vigilia dai critici più esperti e smaliziati. Inizia così l’intensa, folgorante e brevissima “stagione” dei premi letterari francesi.
Neanche un quarto d’ora, infatti, e nelle sale dello stesso ristorante, in una differita che ha del paradossale, i critici che assegnano il Prix Renaudot, nato storicamente per riparare ai torti del Goncourt, emettono il loro contro-verdetto consegnando il premio a Yann Moix per il suo Naissance, edito da Grasset e già definito dalla stampa, simpaticamente, un “mattone autofinzionale”.
Tra telegiornali, blog letterari, siti istituzionali e carta stampata s’innesca una rutilante macchina di discorso che farà arrivare il nome del vincitore (almeno di quello del Goncourt) anche all’ultimo lavapiatti del più infimo bar di Porte de la Chapelle (che per chi non lo sapesse è un quartiere molto popolare e parecchio malfamato di Parigi). Ma non basterà il day after a far passare la sbornia da premi del mondo del libro d’Oltralpe. Perché dopo due giorni, ovvero domani (cioè il 6 novembre), altre due “accademie sorelle”, quelle del Prix Fémina e del Prix Médicis, assegneranno la loro quota di distinzione a due libri che proveranno a scalzare Lemaître e Moix dai primi posti delle classifiche di vendita e di quelle dei libri “insipidi” da regalare a Natale (che poi molto spesso coincidono).
Quelle che andranno in scena all’Hotel Meurice e all’Hotel Crillon saranno delle cerimonie forse meno solenni, ma sicuramente non meno mediatiche di quelle celebrate ieri. A confermarlo è la natura stessa dei premi, nati per contrastare le scelte tradizionalmente conformiste e legate a interessi di consorteria del duo Goncourt-Renaudot. Ecco allora perché tanta attesa tra i bookmakers, interessati a veder realizzarsi le scommesse fatte sul quotatissimo Jaume Cabré (Confiteor, Actes Sud), spagnolo in lizza nella categoria “stranieri” di entrambi i premi o sul western Faillir être flingué (Rivages) della francese Cécile Minard (difficile invece che possano passare all’incasso quanti hanno scommesso su Pierre Lemaître, in concorso in entrambe le competizioni).
Stesso giorno e stesso luogo del Fémina per l’ineffabile Prix Virilo, forse un po’ fuori dai giochi di strategia, ma sicuramente altrettanto interessante. Nato appena 5 anni fa per contestare goliardicamente l’estenuante mollezza del Prix Fémina, ma soprattutto per portare un po’ di humour (e un paio di bei baffi) nel mondo delle lettere francesi, questo premio (con l’eccezionale categoria “trop virilo” per il libro a più alto tasso di testosterone) si è guadagnato nel tempo una nicchia notevole nel panorama critico francese, attirando a sé soprattutto i lettori più insofferenti a quel senso di rigidità egotica e struggente che spesso anima la letteratura francese più “istituzionale”.
Fatto il punto sul botta e risposta di premi che compone e anima la stagione letteraria, si potrebbe intraprendere una lunghissima e pedante riflessione sul valore molto poco culturale e molto più commerciale che hanno assunto oggi questi premi letterari, vere e proprie zone franche della contrattazione tra gruppi editoriali in crisi e case editrici arrembanti in cerca di allori che le consacrino. Un simile discorso però rischierebbe di risultare fatalmente scontato. Più interessante, forse, può essere immaginare quali, tra i romanzi vincitori e tra i grandi esclusi, i talent scout degli editori di casa nostra si impegneranno a promuovere, perché vengano tradotti e sottoposti all’irrevocabile giudizio del pubblico italiano. E l’esercizio non sarebbe di poco conto, visto come, diversamente dalla grande capacità che simili premi hanno di “imporre” successi in patria, quando si tratta di esportare oltre confine, non sempre la fascetta di segnalazione diventi un automatico lasciapassare. Basta passare in rassegna i nomi dei vincitori degli ultimi anni, infatti, per accorgersi che il passaggio non è così immediato.
Il premio Goncourt sembra l’unico ancora in grado di distinguersi anche sul mercato italiano: negli ultimi 8 anni ha lanciato la fortuna mondiale di Jonathan Littel (Le benevole, 2006) e confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, quella più controversa di Michel Houellebecq (La carta e il territorio, 2010), ma ha anche segnalato alcune ottime “novità” come Marie NDiaye (pur molto nota in Francia) e Jérôme Ferrari (di contro, ha premiato anche un Alexis Jenni che rimane da noi un emerito sconosciuto). Questo lascia pensare che il noir storico – ambientato al tempo della guerra del 14-18 – con cui Lemaître s’è aggiudicato il premio quest’anno finirà ben presto sui tavoli dei direttori editoriali delle più importanti case editrici italiane, intenzionate a replicare l’imprevedibile successo di La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker (vincitore, non a caso, del “Goncourt des lycéens” l’anno scorso).
Meno scontato invece è il seguito commerciale dei vincitori del Renaudot: per un Emmanuel Carrère che, dopo averlo vinto nel 2011 con Limonov, ha letteralmente sconvolto anche il mercato italiano, ci sono tanti Scholastique Mukasonga, Tierno Monénembo e Nina Bouraoui destinati a non superare la frontiera (o a superarla ma senza alcuna gloria).
Ancor più limitata al territorio nazionale sembra la bagarre dei premi Fémina e Médicis (di cui da noi ci si ricorda solo quando, per la sezione “stranieri”, vince un italiano: l’ultimo, giusto per ricordarlo, fu Baricco nel 1995). Eric Fottorino, Dany Laferrière, Simon Liberati sono autori premiati le cui nuove uscite vengono abbondantemente segnalate a ogni rentrée littéraire e che, seppur tradotti da piccole o medie case editrici italiane, non sembrano in grado di condizionare il discorso comune sulla letteratura. Colpa di una qualche loro “specificità francese” che non li rende attraenti a lettori che abitano mondi e storie differenti (ma poi quanto…)? O colpa della minor potenza commerciale dei premi che li hanno incensati? O piuttosto, ancora, colpa della scarsa capacità dei nostri editori di accompagnare un autore, dal suo primo exploit in poi, in un rapporto di collaborazione che sappia sedurre i lettori libro dopo libro, invece che preoccuparsi di folgorarli, o meglio stordirli, con una sola, devastante campagna promozionale, fallita la quale non rimarranno forze per altre scommesse?
Apparentemente non ci sono ricette che permettano di prevedere infallibilmente quale sorte toccherà ai vincitori di oggi e di (dopo)domani (anche se le 1143 pagine del libro di Yann Moix sembrano da subito un bell’ostacolo per qualsiasi editore, e lettore, italiano…). Non resta che attendere. O forse, per chi può e ha voglia di cimentarsi nell’esercizio, non resta che provare a leggere, anticipare le scelte, proporre suggerimenti e vedere se i propri gusti di lettore critico possono corrispondere a quelli di un mondo del libro che ai capolavori “nati” sembra preferire sempre più quelli “realizzati” al botteghino.