Hay-on-Wye è un paesino sul confine tra Galles e Inghilterra, diventato noto verso la fine degli anni sessanta quando un tale Richard Booth, fresco di laurea a Oxford, aprì lì la sua prima libreria dell’usato e diede il via a un’epidemia, singolare per l’economia alla quale siamo abituati, che in una decina d’anni portò il paese a essere proclamato “book town” e avere ad oggi circa quaranta librerie (tutte antiquarie o dell’usato, tranne un paio) per 1846 abitanti. Insomma, Hay-on-Wye è il paradiso del bibliofilo, un luogo in cui l’accumulatore di libri e l’acaro della polvere convivono pacificamente, un posto dove è più probabile trovare un trattato autografo di Pasteur che dell’aspirina.
Qui Paul Collins, scrittore, docente universitario, collaboratore di McSweeney’s e soprattutto studioso in quel vasto campo di ricerca che potremmo circoscrivere come “testi di gente completamente sconosciuta dell’ottocento”, ha deciso di trasferirsi (dopo esserci comunque finito in vacanza svariate volte negli anni precedenti). La sua esperienza è raccontata in Sixpence house – lost in a town of book (edito in Italia da Adelphi con titolo Al paese dei libri): più che un romanzo l’autobiografia di un anno di vita e di una città. Divertente e auto-ironico, il libro di Collins è la storia di un uomo e di sua moglie, l’illustratrice e autrice per l’infanzia Jennifer Elder, che scelgono di lasciare gli Stati Uniti per crescere il figlio nella campagna gallese (nonché della loro spasmodica ricerca di una casa). È però anche e soprattutto la storia di una cittadina, costituita principalmente da librai con le loro nevrosi e manie di protagonismo. I fatti narrati sono tutti reali, così come le persone descritte (anche se alcuni nomi sono stati per ovvi motivi cambiati).
Ad esempio Collins racconta il suo incontro con Booth, sovrano incontrastato di Hay-on-Wye, che gli affida il reparto di letteratura americana nella sua storica libreria. Lavoro che per Collins si traduce nello spostare da un punto all’altro pile di libri di ogni autore e fascia di prezzo, circondato da più copie di Harper Lee e Steinbeck di quante se ne possano vendere in una vita. Perché a Hay-on-Wye i libri sono talmente tanti che, quando non si sa più cosa farne, li si regala e quando nessuno li prende li si brucia, come contadini con le stoppie in autunno. E le case (non i bed & breakfast, molti e proliferanti) sono un disastro: antiche, con le fondamenta che cadono a pezzi, infiltrazioni piovane e muri storti. Trovarne una adatta a ospitare un bambino è un’impresa impossibile.
Peraltro Collins, a proposito della vita sociale di Hay-On-Wye, fa anche una breve e pungente parentesi sul festival – non più letterario – che si tiene ogni anno dal 1988 e su cui lascia intendere di avere più di una riserva (commentando con un ironico inciso la presenza, tutt’altro che necessaria, di Bill Clinton). Detto questo, il Festival, la cui atmosfera patinata traspare anche dal sito dell’evento, è ancora oggi un appuntamento fondamentale per l’economia del paese e per la sua nomea internazionale di città dei libri.
La vera forza di Collins, l’elemento distintivo e di maggior interesse della sua narrazione, sta però negli eccezionali aneddoti e citazioni di autori di qualsivoglia calibro e indirizzo, scomparsi dalla circolazione da almeno un centinaio di anni. Si va dalla storia, riportata su un numero del 1844 dell’Illustrated London News, di un postino che aveva inferto «un violento ceffone» a un tale che si trovava sulla strada tra lui e la buca delle lettere, alla rubrica di bellezza di un giornale di Baltimora del 1860, in cui si raccomanda come eliminare i brufoli con l’acqua canforata o come avere mani e polsi meno magri immergendoli nell’olio d’oliva. Paul Collins si serve di questi spaccati della società ottocentesca come di epigrafi per la propria vita quotidiana. Mentre lui e sua moglie fantasticano su come arredare una delle tante case visitate, Collins ricorda un certo D.W. Dibble che, pressando segatura e sangue di bue, riuscì a creare un materiale chiamato emacite con cui «fabbricava di tutto, dagli accessori per la casa ai tasti per i registratori di cassa, alle ruote per i pattini». «Provate a immaginare» scrive Collins, «di essere in quel laboratorio il giorno in cui il dottor Dibble guardando un secchio di sangue di bue, all’improvviso si alza dalla sedia ed esclama: Ehi, secondo me ci si possono fare delle maniglie!».
Tra i miei aneddoti preferiti, poi, c’è quello «di un uomo che pensava che [la superficie del] mondo fosse fatta di vetro, sottile e trasparente, e che al di sotto si trovasse una moltitudine di serpenti; così restava confinato nel proprio letto come un naufrago su un’isola; se ne fosse sceso avrebbe spezzato il vetro e sarebbe precipitato tra i serpenti, pronti a morderlo», o quello del dottor William Hammond, che «in servizio con i nordisti nella guerra di secessione, guarì un soldato dalla convinzione di essere fatto di ossa di pollo».
Insomma, tra avventure quotidiane di librai e frammenti di mensili ottocenteschi, questo, in poche parole, ciò che si può trovare dentro Al paese dei libri: un libro che attraverso i libri parla di un paese che campa sui libri (incredibile, a questo proposito, che Hay-on-Wye non sia stata eletta protagonista di altri testi – a parte quello di Richard Booth, che io sappia). Per quanto mi riguarda più che una chiara idea su Paul Collins, a fine lettura mi è rimasta principalmente un’incredibile voglia di prendere un aereo per il Galles, prenotare una camera al Seven Stars e cercare qualche copia dell’Illustrated London News.