L’isteria di classifiche, cataloghi, liste (e anti-liste) non fa prigionieri!
È così anche per la Balena Bianca: che non lo fa per prima volta, e neanche per l’ultima. Però, mentre tutti si affannano a sancire i più e i meno dell’anno che si sta per chiudere, la ciurma del capitano Achab (insieme a qualche prezioso collaboratore) preferisce dispensare alcuni consigli per affrontare in sicurezza le insidie all’orizzonte per l’anno che si apre.
Date un’occhiata; e se proprio non trovate qualcosa che vi ispira, prendete spunto per un regalo dell’ultimo minuto. Alla fine, quel che conta è che leggiate, o facciate leggere!
Carolina Crespi, Julian Barnes, IL SENSO DI UNA FINE (Einaudi 2011)
A un certo punto uno fa i conti con il tempo che passa. Li ha fatti la Egan, li ha fatti Moresco, li hanno fatti i fratelli Cohen nel terrificante loop di Inside Llewyn Davis. Io li ho fatti settimana scorsa che i trent’anni sono i nuovi vent’anni e non è mai troppo presto per guardarsi indietro. Julian Barnes li fa continuamente in questo libricino da fine dell’anno che ci racconta la storia di quattro amici, una ragazza, un suicidio in una Londra che potrebbe essere qualsiasi altra città. È quasi per caso che Tony Webster, voce narrante della storia di Barnes, torna a più riprese – e a quarant’anni di distanza – su un evento passato, di cui si è dato le spiegazioni del caso, scoprendo che di spiegazioni, ahimè, ce ne possono essere molte altre e che la vita prende una certa piega proprio in base a quelle che ci si è date. Scrive Barnes: «Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici? E più avanti si va negli anni, meno corriamo il rischio che qualcuno intorno a noi ci possa contestare quella versione dei fatti, ricordandoci che la nostra vita non è la nostra vita ma solo la storia che ne abbiamo raccontato. Agli altri, ma soprattutto a noi stessi».
Davide Saini, Serge Latouche, LA SCOMMESSA DELLA DECRESCITA (Feltrinelli 2007)
Quest’anno vorrei consigliare un “cattivo” regalo, un libro che se viene regalato alla persona sbagliata sarà l’ennesimo libro comprato e mai letto, se regalato alla persona giusta nel momento giusto potrebbe farlo seriamente pensare, creargli disagio, magari incertezze o contrarietà. La scommessa della decrescita riesce, in maniera divulgativa e piacevole, ad analizzare molti degli aspetti critici della nostra civiltà e cultura, le contraddizioni e le conseguenze che il nostro modo di vivere occidentale e consumistico ha sul pianeta e sugli altri uomini. La proposta è quella di una decrescita felice e conviviale di fronte alla consapevolezza dell’incompatibilità di una crescita infinita in un pianeta dalle risorse limitate. Mentre l’analisi risulta davvero molto ben costruita, la parte interpretativa fa invece qualche passaggio un po’ troppo azzardato e quella propositiva sembra perdersi senza una reale applicabilità. Non credo che nessuno possa essere del tutto d’accordo con quello che Latouche sostiene, ma credo anche che i problemi che porta a galla siano reali e sotto gli occhi di tutti e che prima o poi, in un modo o nell’altro, dovremo smettere di fare gli struzzi. Del resto magari sarà proprio la persona a cui regalate questo libro a trovare una soluzione valida per tutti, altrimenti gli regalerete comunque un bel po’ di cose a cui pensare e di cui diventare consapevole.
Andrea Pastore, Bohumil Hrabal, HO SERVITO IL RE D’INGHILTERRA (Edizioni E/O, 2011)
Scritto nel 1971 (ma uscito in Italia soltanto nel 1986), il libro racconta la parabola del piccolo Ditie, un apprendista cameriere le cui peregrinazioni di hotel in hotel alla ricerca di fortuna e successo lo renderanno milionario prima, infine cantoniere in una sperduta città di confine. Tra vicende rocambolesche, appassionanti incontri e una selva di personaggi strampalati, il protagonista compirà così la propria iniziazione alla vita. Hrabal ambienta la vicenda nella Cecoslovacchia del periodo compreso fra la Prima repubblica e i dintorni del colpo di stato del 1948, e costruisce una sorta di lungo, avvincente monologo in cui spazia con estrema libertà tra molti generi diversi: grottesco, ironico, tragico, surreale. Un romanzo dal ritmo vertiginoso, complesso e divertente. E, soprattutto, bellissimo.
Andrea Cirolla, Raimondo Iemma, UNA FORMAZIONE MUSICALE (Le voci della luna, 2013)
Raimondo Iemma, classe 1982, torinese, ha scritto un piccolo e curioso libro di poesie – il secondo suo, se si esclude la plaquette Ultime questioni aperte (Edizioni della Meridiana) del 2005. Si intitola Una formazione musicale, lo presenta Elio Pecora e lo pubblica il circolo culturale “Le voci della luna” dopo aver assegnato all’autore il XIX premio internazionale di poesia “Renato Giorgi”.
La questione «musicale» non riguarda solo il titolo, è al centro di questa nuova fase della ricerca di Iemma. La musica delle sue pagine, sostanzialmente narrative – si tratta di prose poetiche, endecasillabi e più spesso versi liberi –, non sacrifica mai il senso; ed è un senso minuto, dell’«ombra» (ne parla Pecora), dell’esistenziale quotidiano. Eccone un assaggio: «Il giorno che i miei si separarono / a dire il vero fu una finta infatti / rimasero seduti sul divano / un divano giallo di una marca nota. // Fu così che imparai la distinzione / semplice esistente tra i luoghi della / mente e lo spazio fisico dei corpi: / con mia madre che ascoltava i titoli // del telegiornale e mio padre / il silenzio di mia madre. Avevo / ventidue anni sulla dolcevita / stirata e la rubrica quasi vuota. // Il giorno che i miei si separarono / comunque non dovetti preoccuparmi / di andare a comprare il giornale perché / da qualche anno eravamo abbonati».
Giacomo Raccis, Boris Vian, LA SCHIUMA DEI GIORNI (Marcos y Marcos 2013)
La trama di questo romanzo del 1947 potrebbe essere riassunta così: un ragazzo è follemente innamorato di una ragazza ed è pronto a fare qualsiasi cosa perché lei sia felice. Le cose vanno prima benissimo, oltre ogni più rosea aspettativa, e poi malissimo, oltre ogni più spietata previsione. In mezzo c’è un mondo surreale, fatto di topi che parlano, case che cambiano dimensione a misura della felicità di chi le abita, esattori delle tasse che giustiziano invece che riscuotere; ma c’è anche una gustosa parodia dell’engagement intellettuale degli anni Quaranta (l’amico del protagonista ha una vera e propria mania per un certo “Jean-Sol Partre”…). La schiuma dei giorni è un libro capriccioso e naïf, come i suoi personaggi, come il suo autore (ma anche come il regista che l’ha portato sul grande schermo): una storia d’amore che si sviluppa al ritmo di jazz, tra un exploit estasiato di Armstrong e un malinconico assolo di Ellington. Un romanzo travolgente quanto effimero, che al suo passaggio lascia dietro di sé un’unica impressione, già anticipata da Vian nella sua prefazione: «Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio che sparisse, perché il resto è brutto».
Marco Bellardi, Francesco Pecoraro, LA VITA IN TEMPO DI PACE (Ponte alle Grazie 2013)
La vita e le elucubrazioni dell’ingegner Ivo Brandani, nato «in tempo di pace», cioè nel ’46, attraverso un’ispirazione narrativa straripante si fanno rappresentazione di un vissuto storico collettivo, quello (soprattutto) di un’Italia regressivamente colta nelle sue deformazioni e alle prese con una postmodernità fragile. Seguiamo quindi le vicende di questo «Ingegnere Strutturista che non progetterà mai nulla», una personalità apertamente sdoppiata (ma ricomposta col Tavor) che, nell’abile variazione dei punti di vista, quasi tutti interni e segnalati da una felice giustapposizione di ritmi e toni, con puntuali slittamenti dalla prima alla seconda alla terza persona, rimanda anche alla “senilità” di un altro noto archetipo. Quello di Brandani è un ruminamento irritato, una digestione che assolutizza la realtà in «istituzioni mentali» (il Padre, la Madre, il Senso del Mare…), un ridurre analiticamente l’esistenza interiore a codici primari. È il disfacimento della vita in un «senso di catastrofe» e il rifacimento del senso nella migliore letteratura.
Lorenzo Cardilli, LE MERAVIGLIE DEL POSSIBILE, a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero (Einaudi 1959)
Nessun genere è più natalizio delle fantascienza, se è vero che «sotto la strutturazione razionalistica» la sci-fi cela «un’inquietudine mistico-religiosa» (Solmi). Le meraviglie del possibile è una storica antologia di racconti brevi pubblicata da Einaudi nel 1959, a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero. Un lavoro pionieristico e raffinato, un viatico per gli scettici, un classico: notevole la qualità dei testi, pazientemente censiti dai curatori in mezzo a una congerie che disgustava il letterato medio. Per chi crede che la sci-fi sia fantasticheria deteriore, per chi ha confinato le sue gite nella finzione in un angusto se-non-vedo-non-credo: a natale c’è ancora tempo per redimersi. Dalla punta secca di Frederick Brown, ai colori di Bradbury, dal visionario Van Vogt fino al geniale e ironico William Tenn: autori ormai classici che “assaggiamo” senza sforzo nella celebre antologia di Einaudi, un long-seller da molti anni. Potremo così fronteggiare alieni incorporei in grado spazzare via in un attimo intere flotte stellari, ameboidi malintenzionati che spacciano materiale porno sulla terra, pianeti inospitali che celano orrende metamorfosi o letali piogge senza fine. Passando per i toni più diversi di quest’affascinante grammatica: «dal popolar tecnologico all’utopico all’orrifico al satirico-burlesco al mistico-inquietante» (Fruttero). Nella sua fuga avveniristica e popolare, la sci-fi ha spesso goduto di una visionarietà speciale: il dono della profezia, forse; ma d’una profezia plurale, obliqua, che non imprigiona perché sconvolta da una “sana” ossessione per il futuro.
Matilde Quarti, Dario Fo, SANT’AMBROGIO E L’INVENZIONE DI MILANO (Einaudi 2009)
Il 25 dicembre succedono un sacco di cose: nasce Gesù bambino, arriva Babbo Natale, la zia di qualcuno si ubriaca, il gatto di qualcun altro salta sul pandoro e Carlo Magno viene incoronato imperatore del Sacro Romano Impero. Se da Carlo Magno si va indietro di quattro secoli e qualcosa si trova invece un uomo, Ambrogio, che venne costretto a fare il vescovo e se le inventò tutte pur di evitare il sacro incarico, persino farsi sorprendere pubblicamente a un baccanale. Dario Fo lo racconta in Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano, in cui tutta la vita del santo e le trame sanguinose dell’impero si intrecciano in un racconto corale e – nonostante l’alto lignaggio dei suoi protagonisti – schiettamente popolare come tutte le opere di Fo sanno essere. Il testo è diviso in capitoli brevi, inframmezzati da disegni, collages, scenografie per un’ipotetica messa in scena. Qui la storia è in forma di racconto storico, lì di dialogo tra Ambrogio e Giustina, la prostituta imperatrice; o con Agostino, ancora giovane, agnostico e sperso nella nuova Milano. Non aspettatevi esegesi, filosofiche o teologiche che siano, quella di Fo è una narrazione, una commedia che scorre veloce e fa sorridere, riuscendo a penetrare nei meandri della storia per riportare alla luce i suoi eventi freschi e pressoché intatti. Da consumarsi con un bicchiere di vino e una fetta di pandoro (ripulita dai peli del gatto).
Francesca Salamino, Hermann Hesse, LE STAGIONI DELLA VITA (Mondadori 1985)
Sarà che l’anno che finisce è sempre un imbuto malinconico in cui passano a fatica tutti i buoni propositi accumulati e non ancora realizzati, sarà che la tentazione di fare bilanci è costantemente dietro l’angolo e quella di fare progetti ancor di più, in questo periodo Hermann Hesse è particolarmente d’aiuto. Soprattutto se trovi un suo libricino per caso, al mercatino di Natale, che ti dice così: «Bisogna trovare il proprio sogno perché la strada diventi facile. Ma non esiste un sogno perpetuo. Ogni sogno cede il posto a un sogno nuovo, e non bisogna volerne trattenere alcuno. Non si tratta ora di imporre al mondo le proprie “pazzie” e di rivoluzionarlo, ma di difendere gli ideali e i sogni della propria individualità».
Il resoconto di una vita, quella dello scrittore-protagonista, passata a cercare il ruolo giocato nella propria, in cui si alternano e si mescolano racconti dalle atmosfere fiabesche, composizioni poetiche e scritti filosofici. Un po’ di tutto: è ciò che ci vuole per quanti raccoglieranno la sfida del Natale, che ci obbliga a chiederci chi siamo e se siamo davvero felici. E forse ci dirà come fare se, felici, ancora non lo siamo.
Michele Turazzi, Aldo Nove, SI PARLA TROPPO DI SILENZIO (Skira 2009)
Se siete arrivati a pensare che il silenzio ha valore in se stesso, che la letteratura si nutre soprattutto di pause e che spesso è più complesso scrivere cinquanta parole rispetto a cinquecentomila battute; se state iniziando a riflettere su cose del genere, questo è un consiglio per voi. Forse dovrete allungare il vostro tragitto lavoro-casa per cercare una libreria che non si accontenta di esporre le ultime novità, ma un po’ di moto in più certo male non fa. Si parla troppo di silenzio è un romanzo breve (davvero breve) che racconta dell’incontro avvenuto tra Edward Hopper e Raymond Carver nel 1958 a Paradise, California. Quell’incontro però non c’è mai stato. Aldo Nove utilizza uno scenario reale per innestarci sopra un dialogo verosimile, servendosi di biografie, interviste, fotografie e materiale d’epoca. Non c’è dubbio: se i due artisti si fossero incontrati, tutto sarebbe andato esattamente così. Ma Nove non si accontenta della verosimiglianza e, abbandonando ogni furia post-cannibale, abbraccia una scrittura piana, precisa e puntuale, uno stile che si adegua con una perfezione così netta alla materia trattata che il lettore ha a volte l’impressione di trovarsi davanti a un inedito di Carver. Insomma, in questo libriccino di sole 78 pagine (più altre 16 di apparato iconografico) ogni parola arriva a sfiorare la necessità, tratteggiando «una fuga nel silenzio che stupisce e rimbomba dentro, nel profondo».