Una chitarra esegue un giro, le corde di un contrabbasso cominciano a vibrare sotto la pressione dell’archetto. L’immagine è sfocata: un cielo bianco, delle fronde. Poi arriva la voce: riconoscibile, ma un po’ più sorda, secca. Il primo volto che compare è quello di Pascal Humbert. La camera si ferma, instabile ma sempre fissa su Humbert e sui suoi movimenti. Poi, dopo un minuto di canzone, finalmente si rivolge a chi gli sta di fianco: Bertrand Cantat, il viso stanco, i capelli forse un po’ sudati, la barba incolta e già, a tratti, grigia. Canta chiudendo gli occhi.
À la croisée des âmes sans sommeil
L’enfer est myope autant que le ciel
On t’avait dit que tout se paye
Regarde bien droit dans le soleil.
Comincia così Dans le soleil, il singolo con cui Bertrand Cantat ha anticipato l’album che inaugura la carriera del suo nuovo gruppo, Détroit, formato insieme allo stesso Pascal Humbert, bassista dalla trentennale esperienza divisa tra Francia e America.
La storia di Bertrand Cantat è arrivata in Italia solo per vaghe eco: a pochi il suo nome dice qualcosa. Aiuterebbe aggiungere che era il cantante dei Noir Désir per risvegliare in qualcuno il ricordo di una chitarra, quella di Manu Chao, che accompagnava la voce di Cantat sulle note di Le vent nous portera.
È il 2001. L’album Des visages des figures segna l’apice della carriera di Bertrand Cantat e dei Noir Désir, gruppo rock di Bordeaux che può essere considerato senza troppi scrupoli il più celebre e amato della storia della musica francese. Dopo quasi 20 anni di carriera, 6 album in studio e centinaia di concerti, i Noir Dez (come vuole la vulgata) si preparano a un successo mondiale. Intorno alla hit, ben equilibrata tra orecchiabilità melodica e un testo di autentica matrice “Cantat”, il gruppo ha costruito un album solido, coerente, maturo, di una bellezza rara e perturbante. Se gli altri due singoli, A l’envers à l’endroit e Lost, mostrano i due volti del gruppo, quello inquieto e affabulatore e quello più arrabbiato e propriamente rock, il vero capolavoro è una piccola perla incastonata al centro della scaletta: Des visages des figures, traccia eponima, summa della parola scabra e della voce armonica che fanno la musica dei Noir Désir.
Il momento del massimo successo coincide però con la più atroce e inaspettata caduta. L’album, uscito l’11 settembre 2001 porta evidentemente in sé il germe della tragedia imminente.
Dall’ottobre 2002 Bertrand Cantat sta ufficialmente insieme a Marie Trintignant, attrice figlia d’arte. Lui ha abbandonato la moglie Kristina Rady, con cui aveva avuto due figli (una, Alice, di appena due mesi), per correre dietro al sogno folle di un amore infantile e assoluto. Per seguire Marie fa scivolare in secondo piano anche gli impegni del gruppo: il tour mondiale dei Noir Désir viene annullato. Il 23 luglio Bertrand e Marie sono a Vilnius, in Lituania, per le riprese di un film (Colette) di cui lei è la protagonista (e la madre la regista). Cantat ha deciso di passare tutto il tempo del tournage accanto a lei, lasciando in Francia il gruppo e i figli; un mese di convivenza “esclusiva”, però, lo porta a maturare una gelosia mai provata. E proprio per una questione di gelosia quella stessa sera i due litigano furiosamente, ubriachi e isterici, arrivando alle mani, tutti e due. E gli schiaffi di Bertrand fanno più male di quelli di Marie.
La perizia stabilirà che la donna è morta a causa del mancato soccorso dopo una forte commozione cerebrale dovuta a una serie di colpi alla testa e al collo. Cantat viene giudicato colpevole di violenza volontaria, omicidio colposo e omissione di soccorso: la giustizia lituana lo condanna a 8 anni di reclusione. La vicenda suscita chiaramente un grande polverone mediatico, data la fama di entrambi i personaggi coinvolti. L’immagine di Cantat, fino a quel momento scolpita nella schiera degli artisti buoni e coraggiosi, si trasforma in quella di un maschilista violento e falso. Agli occhi della gente, inoltre, vicenda privata e vicenda pubblica fanno tutt’uno, e così anche i Noir Désir scontano le pesanti ripercussioni del fatto: le loro canzoni cominciano a sparire dai palinsesti radiofonici e televisivi. Un’indignazione isterica e radicale innesca una vera e propria gogna mediatica, che ha come unico obiettivo la damnatio memoriae di Cantat e di tutto quanto fatto da lui, con o senza Noir Désir. Il culmine viene raggiunto, nel più barbaro dei modi, con l’incendio della sua casa, a Moustey, a due anni precisi dall’uscita di Des visages des figures (dove molti cominciano a vedere addirittura dei segni premonitori).
Dopo un tentato suicidio e un primo periodo di reclusione nelle carceri lituane, Cantat torna in Francia, nel carcere di Muret, vicino a Tolosa, per scontare la sua pena. Ne uscirà il 16 ottobre 2007, dopo soli 4 anni: il giudice, premiando «gli sforzi di reinserimento sociale del condannato» e «le prospettive di reinserimento professionale», dimezza la pena e accorda la libertà condizionale. Forse, negli anni del carcere, l’unica consolazione per Cantat, uomo pentito e distrutto, è stata sapere che le sue canzoni continuavano a essere ascoltate ed amate, e che qualcuno aspettava con apprensione il suo ritorno per sapere cosa sarebbe stato di lui e dei Noir Désir.
Letta a ritroso la vicenda di Bertrand Cantat sembra la “classica” storia della rockstar di genio e incapace di gestire il proprio talento, tra abusi di alcool, vicende sentimentali tormentate e comportamenti indecifrabili. Una personalità ombrosa, difficile da decrittare e soprattutto da irreggimentare. È stato definito più volte come il Jim Morrison francese (in Francia, dove tutto trova un’etichetta, si parlava di «mimétisme morrisonien»), e non solo per i pantaloni di cuoio e le collanine asiatiche con cui si presentava sul palco nelle prime uscite del gruppo. Come il più celebre cantante dei Doors, Cantat dimostra fin dagli esordi, alla metà degli anni Ottanta, una sublime vena poetica, nutrita d’immagini letterarie (da Mallarmé a Lautréamont) e di metafore tanto difficili quanto potenti. Rispetto a Morrison, però, Cantat mette da parte le malizie da esteta e rinforza notevolmente il côté “politico”, assumendo apertamente la posa dell’«arrabbiato impegnato». Anarchico e alter-mondialista, massimalista ma dal pensiero politico articolato, Cantat, sempre sostenuto dai compagni del gruppo, si schiera al fianco di sans-papier e lavoratori, usa le canzoni per gridare le proprie idee per una società senza fascismi, senza razzismi, senza discriminazioni e senza persuasori occulti. In Un jour en France, contenuto in 666 667 Club (1996), album che consacra definitivamente il gruppo, la società dello spettacolo, incarnata dal dogma televisivo, fa coppia con il Front National (allora ancora lontano dai numeri di oggi) nell’immagine di una civiltà gretta e decadente, dove uguaglianza e fratellanza non sono altro che parole vuote, buone solo per la retorica.
F.N, souffrance
Qu’on est bien en France
C’est l’heurd de changer la monnaie
On devrait encore imprimer le rêve de l’égalité
On n’devra jamais supprimer celui de la fraternité
Restent des pointillés… Yeah, Yeah, Yeah !!!
Bertrand Cantat è il leader carismatico di un gruppo che raccoglie speranze e desideri di milioni di giovani e meno giovani che con rabbia e amarezza ritrovano nelle parole di quelle canzoni l’immagine della società in cui abitano e a cui vogliono ribellarsi. La legge dell’auditel e del profitto, la corruzione e le “reti” di conoscenze, l’elemosina per ripulire la coscienza, le maschere sociali, l’uomo mediatico e l’uomo politico, l’incapacità critica e l’irresponsabilità: tutto questo è L’homme pressé, campione di una civiltà che viaggia felicemente verso il proprio stesso annientamento.
I Noir Dez si fanno conoscere e riconoscere. Tanto sono entusiasmanti le performance dal vivo, spinte ai limiti dalla bravura dei musicisti (su tutti il chitarrista Serge Teyssot-Gay) e dalla presenza magnetica di Cantat, quanto fanno discutere le loro prese di posizione, mai ambigue, sempre provocanti. Nel marzo 1997 il gruppo deve passare con la tournée di 666 667 Club a Tolone, città governata dal Front National, che ha cominciato a realizzare il proprio programma politico, riducendo gli spazi di espressione e limitando il sostegno pubblico alle attività dei “giovani francesi”, per favorire lo sviluppo della cultura “occidentale”. Cantat e compagni, tentati di boicottare il concerto, decidono invece di trasformarlo in un «laboratorio di resistenza», dando la parola alle voci escluse, invitando Génération Chaos, gruppo agit-prop parigino, e gli amici Assassin, gruppo rap impegnato e recentemente bandito dalla stessa Tolone. La situazione, a livello di ordine pubblico, è incandescente, ma le migliaia di persone che invadono lo Zenith al grido di «la jeunesse encule Le Pen!» testimoniano che c’è tanta gente che ha bisogno di questi spazi, e di questa musica.
Non solo la politica dei partiti occupa l’orizzonte engagée dei Noir Désir. Anzi, le parole più dure sono quelle rivolte ai vizi della società francese, specchio di una civiltà occidentale imbarbarita. E se i modelli di comportamento che permettono a questa società di riprodursi provengono dal mondo dello spettacolo, allora contro questo Cantat e compagni si rivolgono con più costanza, non solo riempiendo di parole chiare e forti i testi delle loro canzoni, ma anche sfruttando le situazioni ufficiali che li vedono protagonisti per mettere in crisi norme e consuetudini su cui si regge lo showbiz. Senza alcun timore di cadere nel paradosso, scelgono come obiettivo privilegiato delle loro battaglie la loro stessa casa discografica, la Barclay, “filiale” francese della grande multinazionale della musica, la Universal, allontanando così ogni sospetto di silenziosa connivenza. Nel 1991, quando il gruppo è atteso dalla prima conferma sul mercato, dopo che Veuillez rendre l’âme (à qui elle appartient) ha rivelato ai francesi che la loro lingua non è incompatibile con il rock, i Noir Désir decidono di autoprodursi l’album successivo, Du ciment sous les plaines, per dare un segno di forza e autonomia (soprattutto ideologica) ai loro produttori. Il messaggio arriva chiaro, perché il disco vende ugualmente. I Noir Dez tornano con la Barclay per gli album successivi, ma consci di poter trattare da una posizione di forza che nessuno in Francia può vantare.
Il successo cresce costantemente da Tostaky (1994) a 666 667 Club (1996); e con Des visages des figures si spalancano le porte del mercato mondiale. E qui arriva il gesto clamoroso. Il 9 marzo 2002 i Noir Désir sono chiamati sul palco di “Les victoires de la musique” per ritirare il premio per il miglior album rock, Bertrand Cantat stravolge ogni scaletta leggendo una lettera indirizzata a Jean-Marie Messier (ironicamente chiamato camarade), PDG della Barclay: «non sei cattivo… sei mosso da buone intenzioni… tu rispetti gli artisti, soprattutto i ribelli… ma è tutto ancora da dimostrare che tu lo fai per difendere una cultura plurale, e non per il profitto, una parola che tu non pronunci mai, ma noi, invece, sì… hai detto… che un disco su quattro sarebbe stato destinato all’esportazione, come nel caso di Noir Désir e di Zebda: meraviglioso ma completamente folle! Bugiardo! … è per difenderci dall’uso che tu fai del nostro nome che ci permettiamo di risponderti…noi non abbiamo chiesto di far parte di questo grande “tu” che tu dirigi, manipoli, recuperi… anche se siamo tutti imbarcati sullo stesso pianeta, senza dubbio non facciamo parte dello stesso mondo».
Rabbia e generosità contraddistinguono la figura pubblica di Bertrand Cantat, l’anti-divo senza macchia E questo basta, almeno al suo pubblico, a far passare in secondo piano le ombre che a fasi alterne oscurano la sua figura privata, fatta anche di eccessi ed egoismi. Nel 1991, dopo 10 anni vissuti in piena apnea insieme ai compagni del gruppo e dopo essere arrivati al primo significativo successo, Cantat decide di staccare la spina, di prendersi una pausa, i giornali parlano di scioglimento del gruppo, alcuni addirittura di “trattamento psichiatrico” per il cantante. Lui parte da solo per un viaggio in Sudamerica. Come racconta Sacha Naspini nel suo Noir Désir. Né vincitori né vinti (libro meritorio per una ricostruzione pionieristica per l’Italia, meno per una certa “appropriazione” emotiva, enfatica e inconseguente, della storia), solo al suo ritorno Cantat ammetterà: «Non sapevo mica se sarei tornato».
L’eroe che in pubblico tutti ammirano ha un fondo oscuro che pochi conoscono. Ma proprio da quel fondo arrivano le parole che rendono poesia la musica dei Noir Désir. Quando è sul palco o davanti alle telecamere Cantat ha l’aria sempre sicura, di chi sa di stare dalla parte giusta. Eppure, la sua voce roca e la sua lingua immaginifica evocano paesaggi emotivi marcati di inquietudine e turbamento. Ed è forse per questo che oggi, con il senno di poi, si ha l’impressione che a mostrarci la sua vera anima non siano le canzoni più impegnate, sempre sostenute da un rock potente e corale, bensì quelle più intime, in cui la musica si abbassa per seguire i movimenti di una voce che si alza e si spezza, e racconta di amori inutili, nutriti di follia (Ernestine) o delle illusioni provocate da immagini fugaci e ingannevoli (Marlène), ma anche di amori assoluti, che bruciano alla fiamma dell’assenza.
Petite soeur de mes nuits
ça m’a manqué tout ça
quand tu sauvais la face
à bien d’autre que moi
sache que je n’oublie rien mais qu’on efface
Voce, parola e strumento cercano la sintonia per esprimere un dolore che sembra essere già lì prima del dovuto. Ed è su queste note, recuperando quell’ispirazione intima e struggente, che lo scorso ottobre, a dieci anni di distanza dalla morte di Marie Trintignant, Bertrand Cantat si è ripresentato al pubblico.
Qualcuno potrebbe obiettare che il suo ritorno sulle scene si sia già consumato, e che oggi non assistiamo ad altro che all’ultimo e definitivo passo di un reintegro che, volenti o nolenti, i francesi devono accettare. Tuttavia risulta difficile leggere come passaggi decisivi le precedenti apparizioni di Cantat dopo la scarcerazione. Nel 2008, per qualche tempo, si disse che i Noir Désir si erano riuniti e che stavano lavorando a un nuovo album, senza data di scadenza però. Vennero pubblicati sul sito del gruppo, senza alcuna promozione, due brani, ma né Gagnants/Perdants, (troppo impregnata di buoni sentimenti, tra speranza e pentimento, su un’armonia debole e scontata) né Le temps des cerises (dove la carica rock sembra addirittura stridere con il senso remissivo del testo) innescarono il successo che avrebbe dovuto riportare il gruppo sulla ribalta. In realtà il reintegro di Cantat si era rivelato più difficile del previsto: troppo enorme il suo gesto, troppo cambiata la sua personalità perché i vecchi compagni potessero fare finta di nulla. E così, dopo altri due anni di silenzio, nel dicembre 2010, un comunicato ufficiale sancisce lo scioglimento dei Noir Désir. Poco prima il chitarrista Serge Teyssot-Gay (amico di Cantat fin dai tempi del liceo) aveva abbandonato il gruppo «per dei disaccordi emotivi, umani e musicali con Bertrand Cantat, aggiunti al sentimento d’indecenza che caratterizza la condizione del gruppo da diversi anni».
Cantat è diventato un “intoccabile”, anche per i suoi vecchi compagni. Per altri invece, è un nome su cui puntare per qualche collaborazione che faccia parlare, che accenda i riflettori dell’attenzione mediatica. Ed ecco Cantat che canta insieme al duo maliano Amadou & Mariam, o agli Shaka Ponk, o che compare sul palco di qualche festival[1]. Sono fugaci apparizioni, in cui Cantat cerca di ritrovare un contatto con il pubblico, ma senza trovarsi veramente coinvolto in prima persona. Per questo l’uscita di Horizons, primo album di Détroit, segna un momento diverso, più forte e decisivo. E le reazioni della stampa e dei media lo hanno dimostrato.
Ovviamente è la questione morale quella che preoccupa di più gli addetti ai lavori. Si rivivono gli imbarazzi che suscitò, nel 2005, l’uscita di un album live dei Noir Dez (Noir Désir en public), che aveva interrogato tutti sull’opportunità di promuovere i lavori del gruppo dell’«assassino» Cantat. E oggi quegli imbarazzi risultano addirittura potenziati. Non solo perché i fatti di Vilnius non sono stati ancora completamente metabolizzati (e sembra normale che sia così), ma anche perché un nuovo fatto si è aggiunto a turbare le coscienze dei francesi.
L’11 gennaio 2010, nella casa di Bordeaux dove aveva ripreso a vivere insieme a Bertrand Cantat e ai loro figli, Kristina Rady, ex moglie del cantante, si impicca. Milo, il figlio di 12 anni, scopre il corpo della madre, mente Cantat dorme nella stanza di fianco. Kristina Rady lascia una lettera per scusarsi del suo gesto, frutto di una disperazione arrivata a livelli insopportabili. Lei, che fin da subito aveva assistito e difeso l’ex-compagno di fronte alle accuse giudiziarie e alle violenze mediatiche, che lo aveva visitato in carcere e lo aveva riaccolto in casa alla sua uscita, abbandonata dalla forza di volontà che le aveva permesso di reggere alle sofferenze e agli scandali, cede e lo lascia, insieme ai due figli, in preda a una nuova, devastante tragedia. Molti dubitano dell’innocenza di Cantat, il suo esser stato reo di un delitto sembra indicarlo automaticamente come responsabile anche di questa morte. La giustizia fa il suo corso e lo reputa innocente; ma per qualcuno questo non è sufficiente. Un’associazione, spalleggiata da qualche personalità nota, chiede che venga riaperto il caso e che la posizione di Cantat sia riverificata. Sulla base di alcuni documenti che dimostrerebbero le violenze fisiche e psicologiche di Cantat su Kristina Rady, l’inchiesta viene riaperta ed è a tutt’oggi in corso.
In questo contesto, l’uscita del nuovo progetto di Cantat arriva per alcuni come una provocazione, per altri come la legittima affermazione di libertà di un uomo che ha scontato per le proprie colpe e che continua a soffrire privatamente per i dolori che, al di là delle sue responsabilità, ne hanno comunque segnato drasticamente la vita. E al di là dei giudizi, è innegabile che ascoltare il frutto della stravolta ispirazione di chi ha vissuto eventi di questa portata risulti un’esperienza quantomeno perturbante, soggetta com’è alla tentazione di cercare nelle parole e nella musica il riflesso degli eventi, le risposte a un destino ostile. L’alone da “paria” che ancora aleggia su Cantat si riflette sulla sua opera, trasformandola in un oggetto delicato, su cui misurare ogni commento, tanto pubblico quanto privato. Voce, musica e parole arrivano dritte al cuore di chi ascolta per interrogarne la coscienza, metterne in discussione le certezze. È un rapporto emotivo che si innesca al di là di ogni categoria estetica e che trapassa dal momento musicale a quello più intimo, emotivo e morale, facendo esplodere la vergognosa contraddizione di un godimento a un tempo illegittimo e giusto. Ed è forse per questo che tanti francesi, oltre tutti i pregiudizi ribaditi dai media, hanno acquistato i biglietti per il tour dei Détroit, tutto esaurito ancor prima di cominciare. Molto sarà dovuto all’affetto e all’attaccamento che il pubblico dei Noir Désir non ha mai voluto far mancare al suo storico cantante; molto forse anche al fatto che in questo album Cantat ha ritrovato note e motivi che sembrano riportare il tempo allo splendore e al vigore di dieci o quindici anni fa (basti ascoltare Le creux de ta main o Sa majesté). Ma una parte notevole del successo andrà attribuita anche alla magnetica attrazione esercitata da quest’uomo, capace, anche contro la sua volontà, di ricomporre in sé gli estremi di una contraddizione oscena. Come fosse Verlaine e Rimbaud insieme, ha amato e ucciso, ha visto l’inferno e se n’è fatto marchiare, ma non gli si è concesso e adesso, come l’Ulisse di Kafka, racconta l’incubo di chi ha udito il canto delle sirene.
Assiégé par le chant des sirènes
Sentinelle au milieu de la plaine
Le tranchant de l’œil en éveil
Pour regarder droit dans le soleil.
[1] Unica eccezione in questa lista potrebbe essere il quasi invisibile cammeo in Holy motors (2012) di Leos Carax, dove Cantat compare in coda al corteo di fisarmonicisti che accompagnano Denis Lavant in Let my Baby Ride.