di Davide Zanini
Nelle puntate precedenti si è parlato di album di artisti inglesi (Pink Floyd) e statunitensi (Lou Reed); i concept non sono però prerogativa esclusiva del mondo musicale anglosassone, e anche in Italia non mancano testimonianze significative.
Tutti morimmo a stento di Fabrizio De André è una di queste.
Il disco in questione, secondo album del cantautore genovese, pubblicato nel 1968, è tra i primissimi esempi di concept album in Italia; forse non il primo in assoluto, ma certo uno dei più importanti, fosse anche solo per il successo ottenuto e per l’assoluta rilevanza del suo autore.
Tutti morimmo a stento (d’ora in poi TMAS) non è un concept narrativo, in cui viene raccontata una storia ben individuata, con un inizio e una fine; è piuttosto un esempio – paradigmatico – di disco “a tema”, le cui composizioni ruotano attorno a un comune cardine contenutistico, tematico e concettuale (sul “tema” di TMAS si tornerà più avanti).
Va sottolineato come l’organicità del disco, la sua unitarietà, sia ottenuta anche attraverso mezzi ed elementi specificamente musicali: il senso di continuità è infatti garantito da intermezzi che uniscono i vari brani, da riprese melodiche e da arrangiamenti che fanno sfumare una canzone in quella successiva (lo stesso De André parla di una formula «in cui tutti i brani sono uniti tra loro da intermezzi sinfonici e hanno come minimo comune denominatore quello di essere nella stessa tonalità»); si tratta di aspetti che diverranno tipici dei concept album, ma il cui uso qui risulta senz’altro innovativo e in anticipo sui tempi (specie per il panorama italiano di allora).
Continuando a parlare delle caratteristiche musicali di TMAS, ne va certamente evidenziata la natura “barocca”, di disco orchestrale (registrato con orchestra e coro, per un totale di ottanta elementi) dagli arrangiamenti ricchi e complessi (opera di Gian Piero Reverberi, coautore di tutte le musiche dell’album e arrangiatore di diversi lp di De André). In questo senso a qualcuno potrà apparire oggi piuttosto datato, ridondante e pomposo (indubbiamente pomposo è il sottotitolo del disco: Cantata in si minore per solo coro e orchestra); personalmente ritengo invece che il barocchismo di TMAS contribuisca in maniera determinante all’efficace creazione della sua atmosfera, del suo mood, e che i suoi eleganti arrangiamenti sinfonici siano uno dei principali fattori del fascino senza tempo del disco.
Come già anticipato, TMAS è un concept “a tema”: da un punto di vista lirico il suo argomento centrale va individuato in un’idea di morte non banalmente “fisica” e concreta, ma piuttosto – per usare le parole dello stesso De André – «psicologica, morale, mentale».
L’album delinea quindi un fosco e desolante quadro sulla solitudine, l’infelicità e l’emarginazione, attraverso rappresentazioni di un’umanità dolente e sconfitta che si dispiegano nei diversi brani: si parla di vite e menti devastate dalla droga (in Cantico dei drogati, in cui Faber si riferisce anche alla sua dipendenza dall’alcol); di un’infanzia violata dagli abusi di un «Babbo Natale che parlava d’amore» i cui occhi però «eran freddi e non erano buoni» (in Leggenda di Natale, dove il delicatissimo tema della pedofilia è trattato con toccante e straordinario lirismo); o ancora degli orrori della guerra, che distrugge ogni cosa e conduce alla pazzia anche i bambini (in Girotondo, brano che, dietro l’apparenza di “filastrocca”, è assolutamente sconvolgente e agghiacciante).
Si dà quindi un disco dalle atmosfere indubbiamente tetre e cupe, che non si chiude però nella prospettiva di un disperato pessimismo senza vie d’uscita: speranza e riscatto possono infatti essere dati dall’amore, dalla carità, non giudicando in maniera sprezzante e moralistica ma aprendosi alla comprensione del prossimo, alla compassione e – nel senso più alto del termine – alla pietà nei confronti di chi soffre, di chi sbaglia, di chi crede di aver smarrito ogni ragione per vivere e sperare. È questo il “messaggio” – per altro tipico della poetica deandreiana – di fondo di TMAS, esplicitamente rintracciabile nel Recitativo e nel Corale finali.
C’è un brano che, per le sue particolarità all’interno del contesto fin qui descritto, merita secondo me un approfondimento: è la quinta traccia del disco, Ballata degli impiccati (testo di Fabrizio De André e Giuseppe Bentivoglio).
Questo pezzo pare distinguersi dagli altri, a livello di prospettiva lirico-tematica, per almeno un paio di significative ragioni. Innanzitutto – per quanto possa essere banale, nella sua palese evidenza – qui si parla di impiccati e, quindi, di una morte non solo “dell’animo”, ma anche estremamente concreta e reale, dunque di una definitiva e irrevocabile fine della vita. Una morte fisica che per di più non giunge a dare pace, non placa le precedenti sofferenze, ma ne aggiunge altre: la morte è qui un’ulteriore, estrema fatica («Tutti morimmo a stento/ingoiando l’ultima voce/tirando calci al vento/vedemmo sfumar la luce»; «Poi scivolammo nel gelo/di una morte senza abbandono»).
Ancor più significativo e caratterizzante è però il peculiare tono della Ballata. Se altrove – e anche, come si è visto, a livello di messaggio complessivo dell’album – le storie di sconfitta e dolore narrate implicano una dimensione di apertura, comprensione e pietà verso i loro sfortunati protagonisti, qui le parole degli impiccati assumono una prospettiva diversa e ben più forte. Da loro non viene tanto una richiesta di perdono e compassione, ma si libera piuttosto un grido rabbioso che suona come una vera e propria maledizione, rivolta a chi, vivendo, manifesti nei loro confronti disprezzo, scherno o moralistiche e affrettate condanne. Si delinea quindi una serie di autentici, violenti anatemi (nelle strofe quinta, sesta e settima), che culmina nei terribili versi finali, implacabili e senza appello (e bellissimi, se posso aggiungerlo): «Coltiviamo per tutti un rancore/che ha l’odore del sangue rappreso/ciò che allora chiamammo dolore/è soltanto un discorso sospeso». Ma non è tutto. Il livido furore della Ballata degli impiccati non la contraddistingue soltanto dagli altri brani di TMAS, ma pure dal suo dichiarato riferimento letterario: la Ballade des pendus di François Villon (1431 – 1463).
Nel testo del poeta francese (amatissimo da De André, che lo definì «poeta della carità» dalla «sgangherata prodigalità di chi è fuori da ogni casta e non appartiene a niente e a nessuno») gli impiccati si rivolgono a chi vive in una prospettiva di conciliazione, chiedendo loro comprensione e pietà. Il verso che Villon ripete a ogni strofa è infatti «Pregate Dio che ci voglia assolvere»: verso senz’altro affine e accostabile al messaggio generale di TMAS, ma esattamente capovolto – e in questa inversione c’è il gusto di un abile gioco letterario – rispetto al «Coltiviamo per tutti un rancore» della Ballata deandreiana.
Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumar la luce.
L’urlo travolse il sole,
l’aria divenne stretta
cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta.
Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora.
Poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l’antico credo
di chi muore senza perdono.
Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.
La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.
Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.