Lo ricordi in Happiness, come molestatore telefonico. Lo ricordi nei panni di Truman Capote. Con quella voce così acuta e stridula, quando invece di solito è – era – così piena e calda. Oppure lo ricordi semplicemente nella parte del cattivo di un mediocre Mission: Impossible, o come infido consigliere nel secondo capitolo di Hunger Games.
In ogni caso, al termine della visione, qualsiasi sia stato il tuo giudizio sul film, hai pensato che quell’ora e mezza davanti allo schermo fosse stata spesa bene. Perché in quel film c’era lui, Philip Seymour Hoffman.
Quando hai letto la notizia della sua morte all’inizio hai pensato alla solita bufala, e allora sei corso su Google a cercare notizie. E Google ti ha dato quella conferma che cercavi ma che speravi di non trovare.
Poi non ti sei precipitato a postare la notizia su facebook, sperando di essere tra i primi e sorprendere i tuoi contatti.
Perché non l’hai fatto? Perché ti sei reso conto che la notizia della sua morte ti ha colpito per davvero, come quando muore un familiare, un amico, qualcuno che conosci.
Ti dispiace perché tu, appassionato di cinema, sai che se n’è andato un diamante purissimo, di quelli che si trovano una volta ogni dieci anni. De Niro. Pacino. Hoffman, l’altro. Lui era come questi.
Capote, il suo ruolo più celebre, in cui interpreta l’autore di In Cold Blood: effemminato, nevrotico, irritante. Irresistibile.
Before the Devil Knows You’re Dead, tra i film migliori di Sydney Lumet, un altro gigante che ci ha lasciati recentemente. Qui interpreta un uomo che coinvolge il fratello in un piano criminale tanto semplice quanto geniale: rapinare il negozio dei genitori per poi incassare l’assicurazione. Ma niente va come deve, e Hoffman dà carne e sangue a un personaggio al limite che si ritrova oltre il punto di non ritorno quasi senza rendersene conto.
Poi c’è quello strano film, Synecdoche, New York, tra i più complessi, ambiziosi e impenetrabili usciti negli ultimi anni al cinema. Hoffman interpreta un autore teatrale la cui vita va in pezzi quando gli viene diagnosticata una malattia e la famiglia lo abbandona. Decide allora di mettere in scena il più monumentale spettacolo della sua carriera, la propria vita portata sul palcoscenico con tutto quello che le gira intorno: familiari, amanti, amici… Non solo: arriva a ricostruire, in un parossistico set, parte di Manhattan a grandezza naturale. Sineddoche, la parte per il tutto: Manhattan per New York, New York per il mondo intero, le angosce di un uomo per quelle di tutte le anime sulla Terra.
Poi c’è Doubt, dove duetta con Maryl Streep, The Master, con un altrettanto bravo Joaquin Phoenix, The Boat That Rocked, un ruolo finalmente leggero, e tante altre cose, tra cui Ezekiel Moss, il progetto di regia con Jake Gyllenhaal ed Amy Adams.
Ma il tempo corre e non aspetta.
Siamo ora al 17 gennaio scorso, al Sundance Film Festival. John Arundel, del Washington Life Magazine, gli si avvicina, e, senza averlo riconosciuto, gli chiede cosa faccia nella vita. Hoffman gli risponde: “sono un eroinomane”.
Ironico e teatrale, non sta però recitando in questo momento. Il 2 febbraio, infatti, infila nel braccio sinistro una siringa e si spara nel cuore la dose che lo ucciderà.
Perché l’hai fatto Philip? Perché ci lasci a soli 46 anni? Cos’era questa materia nera e ribollente che portavi dentro di te, che prima di ucciderti ti ha permesso di mettere a nudo la tua anima nella galleria memorabile di personaggi neri e tormentati che ci hai lasciato? Davvero recitavi sul set? O portavi in scena semplicemente te stesso, come il protagonista di Synecdoche, New York?
Che poi uno va a pensare: forse non era poi questo grande attore.