Martedì 11 febbraio siamo stati alla presentazione londinese dei testi recentemente pubblicati da Stefano Jossa e Daniele Giglioli. All’Italian Bookshoop di Warwick street i due hanno presentato ciascuno il libro dell’altro, trovando alcuni punti in comune che proveremo a riassumere. Tre pubblicazioni importanti per il dibattito contemporaneo, che vi invitiamo a leggere.
Può un paese essere privo di eroi? Perché in Italia non abbiamo avuto Robin Hood? Stefano Jossa nel suo L’Italia letteraria (Il Mulino, 2006) aveva già indicato la necessità di riconoscere nella letteratura modelli di coscienza nazionale e tensioni dinamiche che mettano in luce l’italianità. Un punto fondamentale, tra le altre cose, quando si ha a che fare con il pubblico all’estero. Con Un paese senza eroi (Laterza, 2013) Jossa ritorna sulla formazione dell’identità collettiva nazionale e indaga la funzione e le caratteristiche dei personaggi principali della tradizione letteraria italiana, a partire dall’Ortis foscoliano per arrivare a Montalbano.
Nato in ritardo rispetto alle produzioni europee, è opinione consolidata che il romanzo italiano sia rimasto a lungo un genere secondario: fatte poche eccezioni, noi italiani con il romanzo non ci abbiamo saputo fare per molto tempo. Quello che ci sembra dire Jossa è che riconsiderato oggi, al di là delle ovvie e risapute questioni storiche, lo sviluppo del romanzo italiano mostra invece molto bene alcuni aspetti della nostra identità, e se non ha avuto grandi eroi da vantare è perché ha avuto fortunatamente altri anticorpi a tenerlo in salute. Se l’eroe ha bisogno di astrarsi, di allontanare la propria storicità e materialità per farsi simbolo, i nostri eroi sono troppo realistici e individualisti per ipostatizzarsi. Lo stesso Ortis è molto meno eroico di come forse si proponeva il Foscolo, ma risulta un personaggio problematico più vicino al Werther di Goethe, e così si può dire dell’Altoviti di Nievo. Del resto – osserva Giglioli nel dialogo con l’autore – anche Gadda si commuoveva nel considerare Don Abbondio molto più umano e più vero per la sua paura: per la possibilità e, anzi, per la necessità della sua paura.
E non è un caso, forse, che gli italiani siano stati puntuali nella rappresentazione dell’antieroe moderno. Prima l’escluso e senza patria, poi l’inetto e l’io scisso. Il taglio comparatistico di Jossa lo porta a prendere in considerazione anche la cinematografia nostrana, Sordi, Fellini, Antonioni. Ma il discorso sull’eroe si allarga al ruolo dell’autore. Con lo sfruttamento commerciale che fa leva sull’appeal esteriore si ripropone la figura dello scrittore vate, colui che rivela con la parola, il portatore, se non di saggezza, almeno di verità documentaria. È Saviano il caso emblematico e in qualche modo riassuntivo. Due storie diverse, quelle dello scrittore, prima e dopo le minacce di morte. Da parola letteraria di buon successo commerciale a parola oracolare (siamo passati, peraltro, dall’«io so. Ma non ho le prove», all’io so, e ci ho pure le carte). Fatto non nuovo: anche Foscolo è mitizzato assai più che il suo personaggio. Per non parlare dei novecenteschi: Moravia? Calvino? Pasolini? Insomma, noi italiani mettiamo l’eroe nell’autore. Ma se ci mancano D’Artagnan e Wilhelm Tell, questo deficit di investimento iconico e simbolico in un personaggio è piuttosto bilanciato dall’immaginario politico, anche nelle degenerazioni più che attuali che scadono nella ricerca metodica della vittima da innalzare.
Così Giglioli in Critica della vittima (Nottetempo, 2014) si interroga sullo statuto sociale che l’assunzione del ruolo di vittima comporta. Il momento storico imprescindibile per il discorso di Giglioli non può che essere l’Olocausto. Ma se è una legittimità storica a porre con forza il problema, la falsificazione del discorso vittimistico si produce a più livelli della vita collettiva: è appunto nel discorso politico, quando accampare pretese persecutorie giova a costruire fazioni, sterili prese di posizione, spostare equilibri, accantonare problemi pubblici per avanzare questioni personali, oppure anche nutrire il risentimento con lo scopo di fare piazza pulita; è nel discorso interpersonale, perché la vittima oggi capovolge il rapporto di subordinazione nei confronti dell’interlocutore e si impone con un rapporto di potere che agisce di riflesso sui comportamenti altrui; è nell’autonarrazione personale, perché chi si sente vittima, e magari lo è veramente, si crede legittimato a costruire la propria identità con questa sorta di retropensiero per cui un risarcimento è sempre in qualche modo dovuto.
E allora si ha vittimismo che alimenta vittimismo quando qualcosa non va per il verso giusto: il raccomandato che mi ruba il posto di lavoro, l’amico che mi frega, l’amante insensibile o che non mi potrà mai capire. Ma la vittima può diventare una categoria sociale che inibisce pulsioni positive in gruppi desiderosi di riscatto, come quello dei giovani precari e però incapaci di uno scatto risolutivo per modificare il corso delle cose. Il vittimismo nei suoi aspetti deteriori assume poi le forme del numero triste che alcuni ragazzi israeliani si fanno tatuare per ricordare quello dei loro nonni. Ma qual è la vittima vera in questa involuzione nei modi di rappresentarci? È tautologico, ma è la vittima, a vantaggio delle false coscienze che ottengono favori, posizioni, in definitiva potere. Giglioli fa l’esempio del cinema di guerra americano: se il cinema classico sulla Seconda guerra mondiale – per tornare anche al discorso di Jossa – forniva modelli del bene, modelli eroici, il pur grandioso cinema successivo (si pensi anche solo a Taxi Driver) ha perlopiù messo in scena personaggi traumatizzati della guerra, tralasciando i milioni di morti vietnamiti. Allora è la vittima, vera o presunta, a diventare l’eroe del nostro tempo. La vittima genera identità. Il saggio di Giglioli si pone evidentemente come continuazione della riflessione portata avanti in Senza trauma, di cui avevamo ampiamente parlato qui, e di All’ordine del giorno è il terrore (Bompiani 2007).
Così il dibattito contemporaneo rivolto anche al di fuori dell’accademia, dopo i nuovi spunti sul realismo dei mesi scorsi, si arricchisce con alcune categorie più tematiche che formali. Non ci resta che vedere come saranno metabolizzate.
S. Jossa, Un paese senza eroi, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 283, € 22.
D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma, 2014, pp. 96, € 12.
D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata, 2011, pp. 115, € 12.