di Davide Zanini
1) Tra i vari generi e sottogeneri del rock, il progressive è uno di quelli in cui i concept album hanno avuto più spazio e diffusione.
2) Nato in Inghilterra (con band quali King Crimson, Genesis, Gentle Giant, Emerson Lake & Palmer), il prog rock ha trovato nell’Italia una vera e propria seconda patria, sia per il successo riportato nello Stivale dai gruppi britannici, sia per il proliferare di formazioni locali dedite a quelle sonorità.
3) Non mancano esempi, in ambito progressive, di concept album italiani.
Possiamo partire da questa breve e schematica premessa (vagamente “sillogistica”) per introdurre il discorso su uno dei più importanti concept del prog tricolore: Darwin! del Banco del Mutuo Soccorso.
Questo disco del 1972, secondo lp della band romana, è significativo sotto vari aspetti: è uno degli album più riusciti e di maggior valore del Banco (possono contendergli il titolo solo il precedente debutto Banco del Mutuo Soccorso e il successivo Io sono nato libero); è tra i dischi più celebri e fortunati di tutto il progressive italiano (che negli anni Settanta non era affatto un genere di nicchia per pochi iniziati). Ma ancora più importante è l’originalità di Darwin!: se in ambito prog – e ancor più in quello italiano – da un punto di vista lirico-tematico dominavano scenari fantastici e atmosfere favoleggianti, qui si dà invece un concept incentrato (come già intuibile dal titolo) sul tema dell’evoluzione umana. Certamente non siamo in presenza di un trattato scientifico in musica (e per fortuna, mi permetto di aggiungere!), né mancano alcuni tratti della tipica – e non per forza negativa – naiveté progressive; ma la peculiarità e l’efficace riuscita del disco sono indiscutibili.
L’album prende il via con L’evoluzione, brano in cui vengono descritti il formarsi della Terra («Niente da grandi dei fu fabbricato/ma il creato s’è creato da sé») e della vita, nonché la comparsa dei primi “antenati” dell’uomo; passando per La conquista della posizione eretta, si giunge poi – con Cento mani e cento occhi – alla creazione delle prime forme di aggregazione sociale e comunitaria da parte degli “uomini” («La nostra forza è in cento mani/e cento occhi fanno a noi la guardia, tu sei da solo/Tu ora se vuoi puoi andare/oppure restare e unirti a noi/E da un branco una tribù che va, da un villaggio una città»). Le due tracce conclusive, all’insegna di toni pessimistico-apocalittici, si concentrano infine sulla vanità della storia e delle imprese umane (Miserere alla Storia), inesorabilmente destinate a finire schiacciate dalla «ruota» del Tempo e distrutte dai suoi «ingranaggi» (Ed ora io domando tempo al Tempo ed egli mi risponde…non ne ho!).
Musicalmente, Darwin! – e con esso anche gli altri citati lavori del Banco – si regge su coordinate ed elementi tipici del prog rock: composizioni lunghe e articolate, combinazione di ricerca e fruibilità, di sperimentazione e melodia, trascinante e consolidato interplay tra i musicisti, ritmiche (non scevre da influssi jazz) complesse e particolarmente dinamiche. Rispetto ai canoni progressive e ai modelli d’Oltremanica, di suo il Banco del Mutuo Soccorso apporta caratteristiche proprie, personali e riconoscibili: la presenza in formazione di due pianisti/tastieristi (i fratelli Vittorio e Gianni Nocenzi); la voce tenorile di Francesco Di Giacomo, tre le più intense e particolari di tutto il rock italiano; testi decisamente sopra la media, rispetto ad altre band del genere e del periodo.
Oltre alla strumentale Danza dei grandi rettili, l’unica canzone dell’album non ancora menzionata è 750.000 anni fa…l’amore? (quinta traccia del disco; musica di Vittorio Nocenzi, testo di Francesco Di Giacomo): ed è proprio su questa che vorrei soffermarmi.
Il brano in questione sembrerebbe essere caratterizzato, rispetto agli altri, da una maggiore semplicità, sia a livello musicale che lirico; tale idea di semplicità diviene però meno pacifica e più problematica rapportando il pezzo al contesto complessivo di Darwin!.
Da un punto di vista musicale, 750.000 anni fa…l’amore? è, fondamentalmente, una ballata per piano e voce (con un Di Giacomo sugli scudi, autore qui di una delle sue migliori interpretazioni): la semplicità strutturale del pezzo non è quindi in discussione, ma diventa peculiare originalità, e unicum del disco, confrontandola con le altre composizioni, ben più stratificate e musicalmente complesse.
Più significativo e interessante è il discorso sul testo. Il brano è, incontrovertibilmente, una canzone d’amore: potrebbe quindi essere ricondotto a una delle categorie più numerose, abusate e (per l’appunto) semplici della storia della musica. Ma, ancora una volta, il brano va inserito nel contesto dell’album e del suo concept, di cui costituisce un importante tassello e una parte integrante, non un dissonante corpo estraneo. Da qui nasce l’originalità e – azzardiamo – la genialità del pezzo: il protagonista dell’amore impossibile di cui canta Di Giacomo è infatti uno «scimmione» di qualche centinaia di migliaia di anni or sono, e attraverso di lui si vuole raccontare – con intenso lirismo e felicissima scelta di prospettiva poetico-narrativa – il nascere dell’amore, inteso come tappa fondamentale e imprescindibile nell’evoluzione della razza umana.
Il quadro lirico che ne deriva, in cui un ominide osserva di nascosto l’amata senza il coraggio di avvicinarsi e di mostrarsi, non si risolve in una scenetta grottesca. Nonostante i riferimenti alla natura dei protagonisti («branco», «e pianto l’unghie in terra», «scimmione»), il testo descrive con grande forza desideri, paure, sentimenti e timori tutt’altro che scimmieschi, in cui può riconoscersi ogni innamorato che teme di esporsi («Nell’ombra sto, sto qui a vederti») e che non può che limitarsi a fantasticare («Ma vorrei per un momento stringerti a me») sul desiderio di un amore irraggiungibile e irrealizzabile («Mia davvero ah fosse vero»).
Va infine sottolineato come, per conferire al brano la sua forte carica emotiva, sia attribuita al protagonista una consapevolezza – di sé e degli altri – indubbiamente superiore a quella dei suoi simili («Lo so la mente vuole/ma il labbro inerte non sa dire niente»; «Ma chi son io uno scimmione/senza ragione»): lungi dall’essere un mero espediente volto a far funzionare il gioco lirico-narrativo del brano, si può forse qui ravvisare il tema della solitudine, dell’infelicità e delle difficoltà cui sono destinati gli animi più sensibili e profondi, in ogni epoca e in ogni luogo.
Ma questo, derivante da una mia interpretazione probabilmente troppo fantasiosa, è un altro discorso…
Già l’acqua inghiotte il sole
ti danza il seno mentre corri a valle
con il tuo branco ai pozzi
le labbra secche vieni a dissetare
Corpo steso dai larghi fianchi
nell’ombra sto, sto qui a vederti
possederti, si possederti… possederti…
Ed io tengo il respiro
se mi vedessi fuggiresti via
e pianto l’unghie in terra
l’argilla rossa mi nasconde il viso
ma vorrei per un momento stringerti a me
qui sul mio petto
ma non posso fuggiresti fuggiresti via da me
io non posso possederti possederti
io non posso fuggiresti
possederti io non posso…
Anche per una volta sola.
Se fossi mia davvero
di gocce d’acqua vestirei il tuo seno
poi sotto i piedi tuoi
veli di vento e foglie stenderei
Corpo chiaro dai larghi fianchi
ti porterei nei verdi campi e danzerei
sotto la luna danzerei con te.
Lo so la mente vuole
ma il labbro inerte non sa dire niente
si è fatto scuro il cielo
già ti allontani resta ancora a bere
mia davvero ah fosse vero
ma chi son io uno scimmione
senza ragione senza ragione senza ragione
uno scimmione fuggiresti fuggiresti
uno scimmione uno scimmione senza ragione
tu fuggiresti, tu fuggiresti…