di Alice Maggioni
“Guardare è la sola cosa che mi resta”
Celestina guarda, ammira, manipola, devia le giovani menti che incontra per trascinarle nel suo infimo mondo, laggiù, vicino alle concerie, in riva al fiume. Celestina vive di immagini, attraverso le vite degli altri si nutre di sensazioni ormai passate, memore di una giovinezza al servizio dell’appagamento fisico. Luca Ronconi con Celestina (al Piccolo teatro fino all’1 marzo) riesuma, per il Piccolo, un testo risalente alla fine del quindicesimo secolo, La tragicomedia de Calisto y Melibea, ironica beffa dell’amor cortese, una pièce che dopo una curiosa storia filologica è giunto alla lingua italiana, grazie al giovane Davide Verga. Atteso e discusso, come avvenne per Il Panico nella stagione passata, il nuovo spettacolo ronconiano, ancora una volta, scardina le dinamiche dell’essere umano, mettendo a nudo i sogni, i desideri, l’amore. Due amanti che non amano sono protagonisti di una storia in cui l’amore non è che una beffa, in cui le fila della sorte sono tessute da un’anziana prostituta, strega arrivista.
Calisto soffre di un male incurabile. Desidera la giovane Melibea, la venera come suo unico dio ma non la ama. L’amore non è contemplato sulle sponde del fiume dove vive Celestina, i giovani che lei istiga e accoppia sono l’ologramma dell’inconscio umano, anticipando di qualche secolo le teorie freudiane. Fernando de Rojas, pietra miliare della letteratura spagnola, compone i sedici atti della tragicommedia nel 1499; nel 1991 il canadese Michel Garneau riscrive una versione in ventidue atti in francese; sette anni fa, sempre al Piccolo, viene proposta una rappresentazione in catalano, diretta da Lapage. Ora, sul palco dello Strehler, una Celestina in lingua italiana divide pubblico e critica già dalle sue prime repliche. I cardini drammaturgici dell’ultimo Ronconi restano invariati, dalla recitazione forzata allo stravolgimento delle proporzioni spaziali, il suo stile riconoscibile viene adattato al controverso testo spagnolo.
La storia di Calisto e Melibea venne usata come pretesto da Fernando de Rojas per prendersi gioco dell’amor cortese, all’interno di un intreccio sensuale e ironico. Calisto non ama, desidera, si ammala per l’oggetto del desiderio che è anche la cura. Celestina, che nel testo originale è un personaggio marginale e protagonista nel dramma di Garneau, vive di emozioni riflesse attraverso gli impulsi dei giovani amanti di cui si circonda. Le donne si allontanano dall’eterna figura angelica, autrici del loro stesso destino manipolano l’uomo attraverso l’arte della seduzione, ammaliano le figure maschili, facili prede. Laggiù vicino alle concerie in riva al fiume è il luogo protagonista, un’ambientazione legata all’immaginario criminale, dove avvengono affari sporchi come le acque che le concerie riversano nel bacino. È li che Celestina richiama i giovani del paese, è li che li unisce alle sue ragazze, vivendo l’amore e la passione attraverso i corpi altrui. Calisto e Melibea sono per lei la sfida più difficile, la più curiosa e proficua.
Luca Ronconi nella sua Celestina gioca con il testo e con gli attori, ancora una volta (dopo l’esperienza di Il panico) messi alla prova su un palco inclinato, che sembra li costringa a radunarsi laggiù, in riva al fiume. Un piano inclinato, costituito da una moltitudine di porte che si aprono o si alzano all’occorrenza, in un intricato sistema di botole e leve (è d’obbligo un plauso alla perizia dei tecnici, diretti da Marco Rossi) racchiude il mondo intricato dei due amanti, come a rappresentarne la complessità psicologica. De Rojas anticipa il viaggio freudiano nell’inconscio, e lascia che sia la parte irrazionale e istintiva a prendere il sopravvento nell’amore di Calisto. Ronconi, in netta contrapposizione con l’irrazionale istintività dei personaggi maschili, impone una recitazione controllata, in perenne tensione e profondamente ritmata. Forse questa scelta drammaturgica toglie efficacia all’irriverenza del testo, forse, al contrario, agevola lo spettatore ad entrare nel mondo dell’inconscio. L’accoglienza del pubblico è divisa, come spesso accade quando ci si rapporta con le soluzioni stilistiche ronconiane, tra i più fedeli estimatori di uno stile ormai riconoscibile e chi, al contrario nutre delle perplessità su un canone recitativo tanto impostato, nervoso e controllato.
La bellezza della Celestina risiede nelle sue ambientazioni quattrocentesche, nelle trame amorose cortesi intrecciate con un testo e un registro linguistico contemporaneo, di grande impatto. Le parole di Garneau, dotate di ritmo e cadenze, disegnano scenari come una scenografia, Ronconi le arricchisce con un ambiente irreale, dove le porte metaforiche e reali compaiono sul palco dal nulla. Rimane il dubbio sull’effettiva necessità di imprimere così marcatamente la propria firma, con il rischio di appesantire un testo già complesso e ricco di personaggi. Le tre ore e un quarto sono, tuttavia, ripagate dalle interpretazioni magistrali degli attori, tra cui spiccano Maria Paiato, nel ruolo di Celestina, Paolo Pierobon, nei panni di Calisto, Lucrezia Guidone/Melibea, Fausto Russo Alesi e Fabrizio Falco, già noti al pubblico di Luca Ronconi.
Celestina sorprende e incanta, almeno per la maggior parte del tempo. C’è qualcosa che non convince pienamente, una mancanza di leggerezza che avrebbe valorizzato maggiormente l’ironico testo; tuttavia il nome del regista già dovrebbe avvertire gli spettatori più esperti, che nelle grandi produzioni riempie della sua poetica il testo e il palco. Non lasciatevi intimorire. I più temerari possono avventurarsi laggiù vicino alle concerie in riva al fiume, per vedere l’eccellenza del teatro italiano interpretare una passione controcorrente.