di Damiano Sinfonico
La mongolfiera che occupa il margine destro della copertina e prosegue nel risvolto sembra sul punto di scappare via. Il suo movimento ascensionale, l’idillio tra un uomo e una donna, il colore rosso acceso dell’involucro, la simmetria dei fili penduli, la zavorra buttata a terra. Il dado è tratto: Livelli di vita è un romanzo verticale che fluttua nell’aria della fantasia, lascia a terra la pesantezza del naturalismo, si regge in un mondo inventivo dove la storia si tramuta in favola e le occasioni perdute si realizzano. Così tra due personaggi che forse non si sono mai incrociati Julian Barnes fa scoppiare un quieto quanto effimero colpo di fulmine, mentre ripercorre la storia del fotografo più famoso dell’Ottocento. Integra il suo racconto con lacerti di documentazione mentre la sua testa vaga fra le nuvole. La sua scrittura è fine come Sarah Bernhardt, che riesce a camminare tra le gocce di pioggia senza bagnarsi; è eclettica come Nadar; umoristica come Fred Burnaby. Lieve come un aerostato.
I titoli dei capitoli sono già un programma: Il peccato dell’altezza, Con i piedi per terra, Perdita di profondità. L’inatteso passaggio avviene al terzo capitolo: dopo aver raccontato le avventure dei suoi eccentrici personaggi, l’autore si concentra sulla perdita della moglie, morta nel 2008. Il precipizio è violento; il libro perde quota. Si esce dalla dimensione romanzesca e si entra in una raccolta di riflessioni e piccoli eventi slacciati dal tempo narrativo. Da questi brandelli l’autore non si solleva, affronta il lutto ripensando a quanto il dolore sia il negativo dell’amore e del desiderio di volo, ribalta le ascensioni dei primi capitoli in uno schianto.
Capricciosi fino all’osso, spensierati comme il faut, rei di anticonformismo, i primi esploratori dell’aria cedono il passo al lugubre concentrato di disperazione e insensatezza che avvolge il lutto dello scrittore. Il tempo della disgregazione, della perdita, dell’impenetrabile durezza della vita frena ogni spinta verso l’alto: Barnes non se la sente di fare come Blériot, che “saliva nell’aria mentre Ernestine scendeva nella terra”. Il suo percorso semmai può ricalcare le orme di Orfeo, che scende negli Inferi, nei sotterranei della memoria e del sogno. Ma senza le illusioni che il mito concede. E comunque parteggia per il cantore: anche lui sceglierebbe di “perdere un mondo per uno sguardo”, girarsi è inevitabile.
Si gode o si paga: le emozioni si avvicendano tra un livello di vita e l’altro, bandita la monotonia orizzontale; gli stati di eccitazione improvvisa, di delusione cocente, o di depressione prolungata si iscrivono nei bruschi e incontrollati zigzag di una mongolfiera. Le stesse tensioni dei personaggi si rispecchiano nelle metafore verticali. L’aspirazione alla completezza, all’amore, alla felicità, da una parte; le inaspettate offese della vita, l’amarezza, la gravità, dall’altra.
Dichiarata l’ammirazione per la tecnica di questo romanzo, restano alcune considerazioni. Innanzitutto, siamo davanti a un’opera raffinata, altamente inventiva, antinaturalistica. Il lungo capitolo dedicato al lutto oscura l’ariosità iniziale del libro: le due parti sembrano appartenenti a due opere distinte, unite da una cerniera tanto sottile quanto impercettibile. L’una è il risvolto dell’altra, chiaramente, ma solo con una certa forzatura la lettura può percorrere le centoventi pagine del libro. I livelli di vita forse suggeriscono anche diversi intervalli di lettura: capitoli sfasati, raccomandati secondo l’umore elevato o a terra del lettore.
La strana architettura del romanzo mette al centro quel piccolo gioiello che in poche pagine racconta l’innamoramento di Burnaby per Sarah Bernhardt, come Un amour de Swann era al centro di Du côté de chez Swann. Una narrazione scandita da ritornanti metafore del volo, la civetteria dell’attrice e la goffaggine di Burnaby, i dialoghi allusivi e interrotti, il ritorno alla terra dopo un periodo felice. Qui due linee salgono e scendono secondo velocità e traiettorie diverse: lui così rapido a salire e a scendere, lei così tiepida, grande sognatrice degli spazi aperti ma ben ancorata a terra.
Di ogni personaggio si potrebbe tracciare un’immaginaria linea che congiunge altezze variabili. Nadar con le sue mirabolanti invenzioni e poi la triste discesa in terra e la vedovanza; Burnaby che muore in battaglia dopo i sogni di un grande amore; Sarah che sparisce dopo un matrimonio disastroso con un uomo come lei “vanesio e impudente”; il narratore, protagonista dell’ultimo capitolo, schiantato a terra e rimasto a lungo in un mondo privo di dimensioni, orizzontali come verticali. Ogni livello si conferma sempre più come una fase provvisoria, temporanea, destinata a mutamenti di rotta, a crolli di altezza. Pare che nessuno si sia mantenuto a un’altitudine elevata, ma la terra ha sempre esercitato con inoppugnabile forza la sua gravità. Essa richiama e attira tutti gli esseri al suo livello, finché non li accoglie sotto la sua superficie. La caduta, morbida o brusca, accomuna tutti i personaggi.
Si attraversano confini insospettati, e questi marcano l’appartenenza a un gruppo: “Nella prima parte della vita, il mondo si divide grossolanamente tra chi ha già fatto sesso e chi no. Più avanti, tra chi ha conosciuto l’amore e chi no. Più tardi ancora […] si divide tra chi ha vissuto il dolore e chi no. Si tratta di differenze assolute; di tropici che attraversiamo”. Bastano poche righe a Julian Barnes per descrivere l’avanzare della vita, il senso di appartenenza o di inadeguatezza, l’identità in costruzione e il tempo che ci segna. E qui si rivela la sua maestria.
I suoi personaggi si muovono con somma agilità tra una soglia e l’altra, sono proiezioni labili su uno scintillante schermo di carta: un tocco, e rischiano di svanire. Barnes li anima finché ne ha bisogno, finché può trarre la loro lezione di leggerezza e di volo, di fantasia e inventività, ma anche di inattesa e disperata caduta. Può armarsi per descrivere il suo lutto, con quelle insolite vite in tasca. Le battute che mette loro in bocca ritornano nel suo capitolo. La sua frustrante ricerca di senso si affaccia con disinvoltura sulle loro eccentriche peripezie. Ma il richiamo della moglie defunta è naturalmente più forte di tutta la sua fantasia di romanziere: non certo una zavorra, ma l’inevitabile concessione alla gravità di modellare le nostre vite.
“Metti insieme due cose che insieme non sono mai state”. L’incipit è a dir poco meraviglioso. Apre a una dimensione fantastica che può coincidere con il livello più alto della vita. E lì attinge il narratore, affrancato da ogni necessaria fedeltà storica e pronto a prendere quota con la fantasia. Potrà così ridisegnare il paesaggio degli incontri, recuperare la profondità del suo rapporto d’amore dopo l’improvvisa solitudine; ma affermare anche l’individualità di ogni dolore, poiché “le statistiche sono destinate a fallire”; passerà in rassegna i consigli sciocchi, le battute inopportune, gli imbarazzi sconfortanti per rivendicare come l’eccezionalità di ogni evento si stacchi da una presunta o invocata normalità. Meglio allora ripassare la spontanea giovialità dei “mongolfolli”, i “commenti sospesi a mezz’aria”, e sperare che il vento spinga nella direzione giusta.
Julian Barnes, Livelli di vita, trad. it. Susanna Basso, Einaudi, Torino, 2013, pp. 118, € 16.50