di Giuseppe Cavaleri
Da ieri, 3 marzo 2014, un uomo è sulla bocca di tutti: Paolo Sorrentino. Ogni programma televisivo che si rispetti, ogni telegiornale, ogni testata giornalistica parla, anche indirettamente, dell’ultimo film dell’autore partenopeo, elevato nell’Olimpo dei cineasti mondiali durante quest’ultima 64° edizione degli Academy Awards. Oggi, il cinema, per qualche istante, ha smosso anche la politica, che in questi austeri momenti si è espressa con un tweet di congratulazioni… Ma passiamo ad altro.
Chi è in realtà Paolo Sorrentino? Di certo non l’ultimo arrivato. Evitando di perderci in dettagli biografici e privati di cui si occuperanno con insistenza i tanti talk show delle nostre reti televisive, concentriamoci sulla sua carriera da regista. Ma cominciamo dalla fine, cercando di capire perché, durante il suo discorso di ringraziamento espresso alle 3.45, ora italiana, il regista abbia inserito nel suo “personale pantheon” di figure ispiratrici Diego Armando Maradona. I più attenti avranno sicuramente pensato al primo lungometraggio del regista, L’uomo in più, film che segna il suo debutto nel 2001. La passione calcistica lo spinge a realizzare un film che sembrerebbe parlare meramente di calcio, ma che in realtà utilizza quest’argomento come pretesto per descrivere i mali del successo, agonistico o artistico che sia. Utilizzando il classico “topos del doppio”, ci mette di fronte due personaggi anagraficamente omonimi, ma che vivono una vita agli antipodi. Con questo primo film, che esteticamente possiede già una precisione di dettagli fuori dal comune, il regista mette in risalto un micro-mondo partenopeo che riflette i mali di un intero Paese, dove l’onestà non vince mai e in cui solo chi viola i limiti morali e legali riesce a sopravvivere alla meno peggio.
Dopo questo primo passo notato soprattutto dai critici, il nostro regista entra di diritto nel mondo del cinema italiano tre anni dopo con Le conseguenze dell’amore (2004), interpretato magistralmente da un Toni Servillo che rinnova (e non sarà l’ultima volta) l’idillio col regista. Quest’opera, pluripremiata, ci immerge in un’analisi tagliente della normalità, mostrandoci che le apparenze spesso ingannano, e ponendoci davanti al mondo della criminalità organizzata in modo diverso, lontano dagli schemi manichei delle produzioni televisive. Il buono non è solo buono, e la zona grigia tra bene e male è ben più ampia di quanto ci si potrebbe immaginare. Magistrale è uno dei monologhi off del personaggio principale che ci mette davanti alla piaga della tossicodipendenza, anticipando, prima che lo facesse Roberto Saviano con Zero, zero, zero, il fatto che il consumo di droghe si è ormai democratizzato.
Sorrentino insiste nell’analisi di singoli personaggi dai tratti unici ed enigmatici, portando nelle sale durante il 2006 il personaggio di Geremia Geremei, sarto di professione, strozzino per passione, a cui è dedicato L’amico di famiglia (2006). Tra le sue produzioni, ancora oggi, questa è quella che i critici considerano meno riuscita, anche se dopo un’attenta analisi, questo film ci mostra di possedere delle qualità rilevanti. Il regista ci mostra un personaggio afflitto da una mania di controllo compulsiva; il suo stile di vita, che lo obbliga ad avere esclusivamente delle “amicizie d’interesse”, lo porta all’alienazione più assoluta. Geremia vive in un mondo tutto suo, in solitudine, compiacendosi della sua atipica stabilità. Ma si sa, la vita ci pone spesso davanti all’imprevedibile, qui rappresentato da due forze incontrollabili: l’amore e la morte. Nell’opera, anche se brevemente, il regista strizza l’occhio agli USA, e sperimenta i suoi spettacolari piani lunghi che saranno alla base delle sue due ultime produzioni.
Battendo la strada dell’alienazione e del controllo assoluto, Sorrentino porta sugli schermi di Cannes Il Divo (2008) che lo consacra internazionalmente e lo impone sugli schermi, grandi e piccoli, di tutti coloro che fino ad ora non sapevano chi fosse. Di quest’opera, e del suo personaggio principale, si è parlato a lungo, e per evitare di scontrarmi con dei mostri sacri della critica preciserò solamente che grazie a questo film il regista si avvicina per la prima volta alla capitale, esplorandone le strade più oscure, quelle del potere; la visibilità fornitagli dalla Palma d’oro gli offrirà un volo per gli Stati Uniti, ma non ancora per Hollywood.
Sean Penn, che lo nota durante quell’edizione del festival d’oltralpe, gli propone un idillio cinematografico incentrato sulla sua persona; Sorrentino gli cuce addosso la figura invecchiata e ipocondriaca di una ex-rock star, protagonista di This Must be the Place (2011). Con quest’opera la cinepresa del regista ci mostra degli scenari naturali poco noti al pubblico europeo, un mondo che toglie il fiato per la sua immensa bellezza.
E di bellezza, almeno in parte, parla il film che da ieri sera tutti conoscono, e che malgrado tutto, nel bene e nel male, tutti ricorderanno a partire da oggi. Da oggi, su Sorrentino, fino a ieri autore di belle speranze, incombe il peso concreto di enormi responsabilità. Oltre a Maradona, fortunatamente, i maestri del cineasta sono altri; uno tra tanti è proprio Fellini, coronato sullo stesso palco 50 anni fa e padre, insieme ad altri, di un cinema che fu grande e che oggi ispira ancora una Grande Bellezza.