di Davide Zanini
Parlando di concept album, si sono fin qui considerati dischi di diverso genere e di varia provenienza geografica, tra loro però vicini per date di pubblicazione (dal 1968 di Tutti morimmo a stento al 1979 di The Wall). Tale prossimità non deriva (solo) dai gusti personali del sottoscritto, né è il risultato di una mera coincidenza: gli anni Settanta infatti sono indubbiamente stati il decennio d’oro – per diffusione, valore, rilevanza e successo – dei concept album.
Tale tipologia di opere discografiche non si esaurisce però in quegli anni, e per concludere questa breve rassegna parleremo di un album decisamente più recente: The Downward Spiral dei Nine Inch Nails, pubblicato nel 1994.
Il disco che ho scelto può sicuramente testimoniare il persistere della forza e della vitalità dei concept album ben oltre gli anni Settanta: The Downward Spiral infatti, oltre ad appartenere a pieno titolo alla categoria, è senz’altro uno dei dischi più importanti e rappresentativi di tutto il rock degli anni Novanta.
Il valore e la rilevanza del disco in questione potrebbero risultare evidenti anche limitandosi a considerare il suo solo aspetto musicale: con questo suo secondo lp Trent Reznor (titolare unico e unica mente del progetto Nine Inch Nails) realizza infatti il suo capolavoro e compie un vero e proprio miracolo musicale, portando al grande pubblico un genere – non certo votato al facile intrattenimento – come l’industrial rock/metal. Ma, più dei generi e delle etichette, conta che tale grande affermazione (5 milioni di copie vendute) sia stata ottenuta da un disco così ostico, complesso e pe(n)sante: un successo quindi – benché meritatissimo – sorprendente, in quanto ottenuto da un lavoro non semplicemente heavy, ma realmente profondo, claustrofobico e disturbante. A tal proposito, senza dilungarci sulla componente musicale (che pure lo meriterebbe), non si può che venire alla componente lirica dell’album.
Anche per quanto riguarda i testi, The Downward Spiral non è certo un disco facile e, pur essendo al 100% un concept album, non ha l’immediata linearità propria di altri concept; il suo apparato tematico-narrativo non delinea infatti una semplice storia, ma si cala più in profondità, arricchendosi di elementi e spunti – lo dico senza timore di esagerare – filosofici, che chiamano in causa tematiche e concetti propri di nichilismo ed esistenzialismo, immersi in un’estetica cyberpunk e avvolti in un’atmosfera scura e opprimente.
Proprio per questa grande quantità di temi, è inevitabile ricorrere a un grande sforzo di sintesi e ad alcune semplificazioni per cercare di riassumere l’intero contenuto lirico del disco.
L’avvio è affidato a Mr Self Destruct, brano che potremmo considerare come prologo o manifesto programmatico dell’opera; da lì prende le mosse la tormentata vicenda – per lo più interiore – del protagonista, che è quella di un uomo che disperatamente cerca di sottrarsi ai meccanismi di controllo e ai vincoli di condizionamento che manipolano se stesso e i propri simili.
L’intento primario è dunque quello di svelare e di mettere in discussione i fondamenti su cui tali forze e tali logiche si reggono: bisognerà quindi rigettare (o quantomeno non limitarsi a subire) l’idea del sesso come strumento di controllo e di potere (Piggy, Closer); rifiutare con decisione e violenza la fede in ogni credo religioso, Dio e il suo potere, tentando piuttosto di prenderne il posto (Heresy, Ruiner); o ancora, smascherare l’ipocrisia e la volgare massificazione di una società omologata e asservita (March of the Pigs).
Il cupo (ma, diciamolo, realistico) nichilismo di Reznor non fa però scaturire da queste premesse alcuna forma di sviluppo positivo o rassicurante. Alla fase distruttiva, di negazione e demolizione, nel protagonista non subentra infatti alcuna fase serenamente costruttiva: la sua ribellione si risolve invece nello sprofondare progressivo in una inesorabile «spirale discendente», in cui alla contestazione non segue l’affermazione di nuovi e più autentici valori.
Il protagonista scopre così (The Becoming) il desolante vuoto dell’uomo-macchina in cui ormai si è trasformato, alieno a ogni sentimento e mosso solo da sterile indifferenza; residue forme di resistenza da parte sua (I Do Not Want This) saranno del tutto vane.
Completato lo svelamento di tale terribile orizzonte, all’insegna del nulla più totale, matura in lui l’idea della resa, della morte come unica, estrema via di fuga (A Warm Place, Eraser); sarà infine la title track a descrivere, con glaciale linearità, il suicidio del protagonista.
The Downward Spiral non termina però con la traccia omonima, e dopo quel brano c’è spazio per un’ultima canzone: Hurt.
Si tratta di un pezzo musicalmente diverso dai precedenti, più scarno e meno aggressivo, dotato però di una straordinaria intensità: una dolente ballata sui generis, dalla devastante carica emotiva.
La collocazione di Hurt a conclusione dell’album, dopo la descrizione del suicidio del protagonista avvenuta nella traccia precedente, pone dei problemi interpretativi. Come intenderne infatti le parole, teoricamente pronunciate da un uomo che già si è dato la morte?
Le ipotesi possibili sono più d’una, e in ognuna vi è un alto margine di plausibilità: Hurt potrebbe essere una sorta di lettera d’addio scritta dal protagonista prima di suicidarsi; potrebbe altrimenti essere una riflessione sul dolore e la difficoltà di affrontare la vita, dotata di una portata universale che oltrepassa i confini di The Downward Spiral e del suo concept; o ancora, la si potrebbe interpretare come epilogo dell’album, speculare e opposto al prologo di Mr Self Destruct.
Come detto, c’è del vero in ciascuna di queste possibilità. Ma proprio la complessità e, ancor di più, la grande bellezza del testo di questa canzone, rendono la questione della sua interpretazione in rapporto al concept un problema, di fatto, secondario. Hurt è infatti un brano che ha già in sé il suo significato e il suo valore, la cui forza gli conferisce una sua propria autonomia; in questo senso è forse significativo ricordare che del pezzo esistono interpretazioni a opera di vari artisti (famosa, bellissima e particolarmente toccante è la versione di Johnny Cash del 2002).
Detto tutto ciò, resta finalmente da vedere quale sia il contenuto lirico di Hurt.
Preso atto dell’annichilente vuoto di valori e verità, celato dietro apparenze e falsità smascherate e rifiutate, il protagonista/Trent Reznor/L’Uomo giunge all’amara consapevolezza che l’unica realtà tangibile e concreta dell’esistenza sia il dolore («Mi concentro sul dolore/l’unica cosa che sia reale»). I riferimenti all’autolesionismo («Oggi mi sono ferito/per vedere se riesco ancora a sentire») e alla droga («L’ago squarcia un buco/la vecchia familiare puntura») divengono poi metafore ed emblemi di altro dolore, di quelle pulsioni autodistruttive – recanti ulteriori sofferenze – perseguite nell’illusione di sottrarsi a una realtà insopportabile; ma si tratta, appunto, di una semplice illusione, del tutto vana («Cerco di allontanarlo/ma ricordo ogni cosa»). Da ciò scaturisce un tragico senso di resa, intessuto di rimpianto, di disgusto e, soprattutto, di rifiuto per tutto ciò che è stato nel corso di un’intera – forse inutile – esistenza; ciò è quanto esprime il ritornello di Hurt che, con la sua struggente intensità, merita di essere riportato per intero: «Cosa sono diventato?/mio dolcissimo amico/tutti quelli che conosco/se ne vanno alla fine/potresti averlo tutto/il mio impero di sporcizia/ti deluderò/ti farò soffrire».
Seguono altri versi che tornano sui concetti di sconfitta («Pieno di pensieri spezzati/che non posso riparare») e di inesorabile disumanizzazione («Sotto la macchia del tempo/il sentimento svanisce»); ma veramente decisivi sono quelli finali, posti in chiusura (dopo aver ripetuto il ritornello): «Se potessi ricominciare/lontano un milione di miglia/mi prenderei cura di me/troverei un modo».
Queste parole, con cui termina The Downward Spiral, suonano – rapportandole al concept del disco – come un epitaffio di devastante intensità: il protagonista dichiara infatti qui il desiderio di tornare indietro, di affrontare la vita in maniera differente, di non cedere a indifferenza e cinismo e di poter riaffermare la propria umanità. Sappiamo però che è ormai impossibile e che è troppo tardi, dal momento che la morte è già sopraggiunta, o comunque arriverà presto, tramite il suicidio di chi pronuncia quelle parole, che hanno quindi il sapore di uno straziante rimpianto.
Abbiamo però detto che Hurt può essere letta anche in una prospettiva più ampia e universale, svincolandosi dal solo concept dell’album: in quest’ottica il significato di questi versi cambia, notevolmente. Il senso di fine irrevocabile e di sconfitta può infatti così lasciar spazio a un importante margine di speranza, al senso dell’effettiva possibilità di un nuovo inizio. Spetterà a ogni potenziale destinatario del messaggio di quelle parole impegnarsi per poter affermare, nel corso di un’esistenza che può non essere del tutto vana, la forza della propria umanità e di un significato che, in fondo, è ancora possibile costruire.
I hurt myself today
to see if I still feel
I focus on the pain
the only thing that’s real
the needle tears a hole
the old familiar sting
try to kill it all away
but I remember everything
What have I become?
my sweetest friend
everyone I know
goes away in the end
you could have it all
my empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
I wear my crown of shit
on my liar’s chair
full of broken thoughts
I cannot repair
beneath the stain of time
the feeling disappears
you are someone else
I am still right here
What have I become?
my sweetest friend
everyone I know
goes away in the end
you could have it all
my empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
If I could start again
a million miles away
I would keep myself
I would find a way