27 ottobre 1949, Marcel Cerdan insieme a Jo Logman e 2 amici sale in macchina. Domandano a Marcel per quale motivo debba partire proprio quella sera, non c’è alcun motivo per affrettare la partenza, di tempo per rientrare negli Stati Uniti per disputare la rivincita contro Jake LaMotta, fissata per il 2 dicembre, ce n’è, e tanto anche. «Accendi la radio dai!» chiede Marcel.
C’è Edith Piaf che canta, «ecco, è per lei che torno».
Un ultimo sguardo a uno dei tre orologi che Marcel porta con sé, uno sull’orario di Parigi, un altro su quello di New York e il terzo con l’ora locale, per controllare l’arrivo in aeroporto.
Si incontrano nel 1946, 30 anni lui, di poco più grande lei. Marcel è già sposato con Marinette, 3 figli rimasti a Casablanca a curare la brasserie di famiglia, la Piaf invece tanti amanti e pochi amori che ha svezzato e aiutato a portare al successo, Yves Montand, Aznavour, Eddie Constantine, Moustaki.
La sera in cui si incontrano, al club “Le Cinq” di Montmartre, lui chiede qualcosa di semplice, un Pastrami sandwich, lei lo corregge immediatamente: due filetti tournedos Rossini e vino Château Langelus 1939. La legge fisica dell’attrazione degli opposti aveva pienamente spiegato il suo funzionamento.
Marcel ha sangue bastardo, riunisce i continenti nella sua biografia. La mamma spagnola, lui nato in Algeria nel 1916: Sid Bel-Abbes, sede della legione straniera, mal d’Africa che non ha ancora abbandonato i sogni colonialisti di una Francia aggrappata alla propria visione imperialista. Padre macellaio, ex pugile, che insegna la vita ai propri figli a colpi di cinghia. Marcel condivide gioie e dolori insieme ai suoi 3 fratelli, modesti boxeur professionisti anch’essi. Marcel li anticipa tutti, a 8 anni è già sul ring.
Sid Bel-Abbes però non è posto dove condurre una vita serena, lo scrittore svizzero Friedrich Glauser l’avrebbe raccontata come un incubo: terra fortino di atrocità, profumi, droghe e violenze. La famiglia Cerdan decide dunque di spostarsi verso Casablanca, Marocco. Attirato fin da giovane dal calcio, a Casablanca Marcel vi si dedica con discreti risultati, intermedio, mediano di fatica e di corsa, ruoli che nel calcio moderno non esistono neanche più, fino a che su pressioni del padre opta per il pugilato.
Marcel ha tecnica, precursore del combattimento a media-corta distanza, riesce a prendere il tempo all’avversario e a schioccare ganci corti e stretti alla mandibola. Allo stesso tempo gentiluomo del ring, spesso raccoglie lui stesso gli avversari che poco prima ha schiantato al tappeto.
Nel ‘42 i suoi terribili colpi in rapida successione condannano Fernandez Viez al conteggio. «Marcel, non farmi male, ho 36 anni e 3 figli». Marcel accompagna Fernandez per le restanti 10 riprese senza infierire.
Durante un altro incontro il suo gancio sinistro sdraia Gustav Humery dopo soli 130 secondi. Coma. Humery si riprende dopo 36 ore di agonia e nelle interviste successive al risveglio Marcel dichiara che alla notizia si era precipitato in chiesa e aveva acceso decine di ceri alla Madonna.
Marcel Despaux, in una Francia appena liberata, si era visto frastornare da una girandola di pugni. Il malcapitato esce dal ring in barella e viene ricoverato in ospedale. Una volta rientrato in albergo la felice sorpresa: Marcel gli ha regalato la quota del proprio ingaggio.
Loucien Roupp è stato il primo maestro, e manager allo stesso tempo, di Cerdan. Amico del padre di Marcel, e proprietario di una palestra a Perpignan, concede a Marcel di tirare i primi pugni in terra di Francia. A Parigi il debutto alla Salle Wagram, il tempio della boxe francese, poi l’Elysèe Montmartre, nel quartiere degli artisti e dei pittori di strada, la Parigi di un’epoca che non c’è più, il Club des Cinq, il bistro Chez Paul sempre a Montmartre, Elle fréquentait la rue Pigalle e La Vie en Rose. In rapida successione Marcel non manca i successivi appuntamenti con il Parco dei Principi, altro tempio del pugilato e del ciclismo made in France, e il Rolland Garros, che si crogiola nella calda estate parigina. 10.000 persone tutte per Marcel, solo per vedere lui, il match è senza titolo. In patria invece è già un eroe, più di 21.000 paganti al Philippe Stadio di Casablanca la notte in cui si prende il titolo di campione di Francia dei pesi medi a spese di Omar Kouidri. Vogliono vedere lui, allo stadio si entra con un mattone, uno straccio, uno sgabello portato da casa come poltroncina di fortuna da sistemare nella tribuna dello stadio. Qualcuno si è persino indebitato per potersi permettere il biglietto.
Dopo quella notte non è più solo Marcel Cerdan, ma il Re di Francia, “le Bombardier marocain”. 47 vittorie consecutive dal 1934 al 4 gennaio 1939 quando perde per squalifica contro Harry Cresner alla quinta ripresa nella notte londinese.
Il titolo nazionale però non basta; per poter ambire alla corona mondiale dei pesi medi è necessario un titolo continentale, il titolo europeo.
Ed è Milano che lo incorona Campione Europeo dei Medi, sulla distanza delle 15 riprese, un’eternità, contro il nostrano Saverio Turiello, pugile estroso e furbissimo.
Il giovane Marcel ha però già avuto modo di innamorarsi della bella Italia: rispondendo all’appello della storia si era arruolato nella marina francese. Torneo interalleato per pugili professionisti. Nonostante la pena e la miseria della guerra si riescono a trovare ancora pochi e sporadici momenti di spensieratezza.
Il torneo si svolge nella capitale, Roma, la Roma sporca e distrutta di De Sica e dei neorealisti, al Brancaccio, teatro di spettacoli musicali, il varietà all’italiana nelle sue numerose espressioni. Marcel tira dritto come un treno, in rapida successione affronta Joey Di Matteo, Sammy Ardagna, Larry Cisneros, Floyd Gibson di Cincinnati. Quello stesso torneo incorona anche un certo Ezzard Charles, “lo sparviero dell’Ohio”, di lì a poco protagonista mondiale dei pesi massimi.
Interessi politici e facili eroi di regime sono all’ordine del giorno nella Francia occupata, Marcel, tuttavia, rifiuta sempre la contiguità con il potere politico. Anni dopo, suo figlio, omonimo, in un documentario dell’emittente Francese «Infrarouge» si esprime in questi termini: «era il suo lavoro, era un professionista ma non si accompagnò mai a fascisti o nazisti».
«Monsieur Marcel, saremmo felici di avervi nostro ospite alla cena ufficiali», invitano i tedeschi nel ‘42 subito dopo l’incontro con Josè Ferrer, liquidato in 83 secondi pieni di 8 atterramenti. «Grazie, non posso». Direzione Marsiglia per imbarcarsi e tornare a casa, la Casablanca della resistenza, quella del “Rick’s bar” di Humphrey Bogart.
La Francia però, femmina lusinghiera, si è ormai innamorata; «l’Equipe» il 28 febbraio del ‘46 lo mette in prima pagina, due franchi.
Finalmente l’occasione mondiale. Dopo una difficilissima battaglia contro Harold Green, violento, cattivo nei colpi, Marcel con le mani doloranti e infiacchito dalle botte di analgesico per tenere a bada un inopportuno raffreddore, davanti a 18.000 spettatori paganti, viene considerato degno di competere per la corona mondiale contro Tony Zale, “the Man of Steel” dall’Indiana, colui che ha piegato Rocky Graziano.
Tony Zale, un passato di guerra, biondino con la faccia rovinata, pugno pesante, il pugno da Kappaò, lo aspetta a Jersey City, stato del New Jersey, sulla riva est dell’Hudson a 10 km da New York, città storica del pugilato fin dai tempi dei pionieri.
Marcel aggredisce, attacca, composto, gancio destro a sconquassare e il sinistro che, roccioso, difende la milza. Marcel controlla, lo guarda in faccia, sa dove muoversi, Tony subisce. Annientato contro le corde, braccia stese, lunghe sul corpo, gambe molli, spento, si accascia, buonanotte. Marcel, e insieme a lui l’adottiva Francia, sul tetto del mondo.
Alle 4 del mattino la notizia arriva a Parigi, l’alba a Montmartre, persone per strada, decine di migliaia di parigini, dieci minuti di applausi. La Francia si ripulisce agli occhi degli algerini. Marcel Cerdan, coetaneo e connazionale di Albert Camus, nel quale si era imbattuto sfogliando L’étranger, diventa eroe dei due mondi, Francia e Algeria.
Dura poco l’idillio. La boxe di quegli anni è satura di mafia. Frankie Carbo gestisce tutto. Una scuderia di pugili. Jake LaMotta, “il Toro del Bronx”, vuole quella cintura, Frankie Carbo vuole quella cintura e la vuole addosso a un suo pugile. Solo decine di anni più tardi LaMotta confesserà di essere stato vicino alla famiglia Carbo; bene o male ne farà le spese anche un giovane Tiberio Mitri che il 12 luglio 1950 si troverà di fronte Il Toro.
La vittoria di LaMotta contro Cerdan però non è certo scontata.
400.000 $ per buttarsi al tappeto. «Marcel, ti paghiamo bene, fai il tuffo, e torni a casa ricco». Marcel piuttosto si ammazza. Al Briggs Stadium di Detroit 16 giugno 1949, l’incontro diventa una macelleria messicana, Marcel si difende da mutilato, uno strappo al muscolo della spalla sinistra contratto alla prima ripresa lo costringe a combattere con una sola mano, il lato destro è ben coperto, ma il lato sinistro, il volto, è esposto alle bordate di LaMotta. Dall’angolo Lew Burston e Sam Richman, i suoi manager, vorrebbero lanciare la spugna. Alla fine la faccia gliela salva il medico, il Dottor Jospeh Callman: KO tecnico. Avvelenato, rabbioso Marcel, ammutolita la Francia, severa. La rivincita viene fissata per il 2 dicembre successivo.
Nell’attesa Marcel torna in Francia per una tournèe di promozione, un favore ad un amico.
«Prendi l’aereo, non avrai mica paura? Ho bisogno di te, mi manchi», Edith Piaf lo reclamava dalla sua abitazione di New York, al 136 di East Lexington Street.
Giovanna Gassion, in arte Edith Piaf, aveva storia di strada. Mamma italiana, livornese, e padre sconosciuto. Partorita su un marciapiede di rue Bellevue nella settimana di Natale del 1915, l’infanzia la passa in Normandia dalla nonna, proprietaria di un bordello. A quindici anni scappa e si procura da vivere cantando nelle osterie. A diciassette rimane incinta di Marcelle, che una meningite si porterà via a soli due anni. A volte i nomi sono un destino. Voce imperfetta nell’intonazione, ma magnetica, tragica e disperata nel canto, diviene presto “La Môme”, “l’Usignolo”. Conduce lei il gioco dell’amore, Marcel a lei non sa dire di no, avrebbe voluto salvarla e proteggerla dal passato di dolore. Con lui Edith non si sentiva più sola.
Il Lockeed Costellation F-Bazn di Air France decolla il 27 ottobre 1949, dall’aeroporto di Orly. A bordo ci sono Marcel Cerdan, Jo Logman, la violinista Ginette Niveau, il pittore Bernard Bouvet de Morivel, Kamon Kay, direttore commerciale di Walt Disney e un’altra quarantina di persone.
Mancano cinque minuti all’atterraggio, il Costellation vola a mille metri di quota, troppo basso, impatta sul Picco Redonta e va in frantumi, un tragico errore del comandante, Jean Nove, primo pilota, 67.000 ore di volo e 80 trasvolate atlantiche: inciampa sull’unico sperone di tutto l’ Atlantico, «l’unico capriccio terrestre di un mare infinito» come lo definì Cesare Fiumi, editorialista del «Corriere della Sera».
Marcel era di tutti. 45.000 persone lo accompagneranno nel saluto finale, e davanti alla brasserie di famiglia, a Casablanca, la gente, che non conosceva dolori separati, pregava Dio e Allah e chiunque altro potesse dare una mano alla propria speranza di saperlo vivo.
24 ore dopo lo schianto, Edith Piaf sale sul palco del “Versailles” e imbottita di tranquillanti sospira: «stasera canto per Marcel, per lui soltanto».