Mogadiscio è una città bianca, di polvere che si deposita sulle strade e sui muri, di un sole che secca il fango e lo trasforma in case. Dal gennaio del 1991 a Mogadiscio c’è la guerra, forse un’ultima eredità dello sbilenco colonialismo italiano. Per Samia Yusuf Omar la guerra è come una sorella maggiore, «una sorella cattiva, ma pur sempre qualcuno che ti conosce alla perfezione», perché ti conosce dalla nascita e ti vede crescere, passo dopo passo.
La vita a Mogadiscio non è facile per una ragazzina, soprattutto se a prendere il potere nella capitale sono gli integralisti islamici di Al-Shabaab e se questa ragazzina non accetta l’interpretazione più severa delle regole della tradizione, che impone alla donne di portare il velo integrale, di restare chiuse in casa, di mortificare la propria vita. Samia invece è vitale, ha voglia di giocare con Alì, il suo amico d’infanzia, ha voglia di cantare con Hodan, la sua sorella maggiore, e soprattutto ha voglia di correre.
Quella di Samia Yusuf Omar è la storia di una ragazza dotata di un sogno e di gambe veloci, che dalla polvere delle strade di Mogadiscio riesce ad arrivare fino al tartan in mondovisione delle Olimpiadi di Pechino 2008, per rappresentare con orgoglio i colori di un popolo, quello somalo, oppresso dalla guerra. Giuseppe Catozzella si prende carico della storia di Samia e con Non dirmi che hai paura (Feltrinelli 2014) prova a raccontare dalla prospettiva della ragazza la tragica parabola che dopo averla innalzata agli onori della cronaca sportiva mondiale la vede ritornare in patria e intraprendere un viaggio della speranza – la speranza dell’Europa e di una vita lontana dal suo paese –, che la porterà alla morte, nelle fredde acque che separano Sicilia e Libia. Un libro facile da scrivere perché la storia, come troppo volte purtroppo succede, si racconta da sé, contiene già i propri punti di tensione; ma, allo stesso tempo, un libro difficilissimo, per tutti i rischi che l’«appropriazione» di una storia simile – da parte di un uomo e di un occidentale – può comportare in termini di tradimento, di riduzione banalizzante, di investimento patetico o, al contrario, di accentuazione tragica. Giuseppe Catozzella si è preso questo rischio e ci ha consegnato un libro che accetta i propri difetti di scrittura nella consapevolezza che la testimonianza, in questo caso, vale più di qualsiasi fallimento letterario.
La vita di Samia si divide in due. Il tempo del sogno e il tempo del viaggio. In alcuni momenti questi due tempi scorrono paralleli – il viaggio rappresenta il mezzo per raggiungere il sogno –, ma in sostanza non coincidono mai. Appartengono a due ordini differenti.
Il tempo del sogno è quello della corsa, che deve portare Samia alle Olimpiadi da vincitrice, per fare grande il suo paese e cominciare una riscossa che tuttavia, nel presente, nulla, se non il suo grande entusiasmo, lascia trapelare. Nel tempo del sogno rientra tutto ciò che fa di Samia una bambina fortunata in un contesto di vita sempre più difficile e oppressivo. La serenità famigliare, fatta dei consigli amorevoli di aabe, il padre, primo a credere nell’ambizione della ragazzina; della resistenza silenziosa e piena d’amore di hooyo, la madre rimasta vedova a capo di una famiglia da cui tutti a malincuore cominciano ad allontanarsi; dalla voce di Hodan, sorella e confidente, esempio di vita per Samia, e prima a intraprendere con fortuna il lungo viaggio per iniziare una nuova vita lontano, in Europa.
Ma nel tempo del sogno ci sono anche i pomeriggi trascorsi con Alì, l’amico capace di sacrificare la propria passione per mettersi al servizio del talento di Samia, diventandone a soli 10 anni il primo allenatore. Nel tempo del sogno c’è tutto ciò che la corsa porta con sé: la soddisfazione delle vittorie nelle gare amatoriali in Somalia, la scoperta di poter competere con le professioniste e la scoperta, quindi, che quello che sembrava l’azzardo di una bambina un po’ arrogante, è in realtà l’orizzonte concreto di chi ha le doti per essere all’altezza delle proprie ambizioni.
Ed entro questo orizzonte tutto acquista un valore e un senso che può trascendere le difficoltà del presente, la nostalgia per la lontananza della sorella o la tristezza per la morte del padre. Il sogno riesce ad accendere il cuore, permette di far fronte a ogni difficoltà. I sacrifici del tempo del sogno sono quelli fatti con il sorriso sulle labbra, quando Samia può dire ad Alì di odiarlo, perché tutte le sere la costringe a degli scatti ripetuti fino allo sfinimento, sapendo che Alì non ci crederà e, al contrario, saprà cogliere in quelle parole un ringraziamento, o addirittura una dichiarazione d’amore.
Il tempo del sogno porta Samia a vagheggiare i contorni di una vita migliore, definitivamente libera, senza guerra e senza l’obbligo di essere tristi e sottomessi; ma porta con sé anche la coscienza di non poterla avere in dono, bensì di doverla conquistare con la fatica e il sacrificio, per un atto di giustizia verso chi non ha avuto diritto alle sue stesse possibilità. Quando esce per la prima volta da Mogadiscio per andare a correre una gara ad Hargeysa, nel Nord della Somalia, una zona in cui Al-Shaabab non ha il controllo sulla popolazione, Samia ha l’impressione di fare esperienza per la prima volta di un tempo di pace, di libertà. L’immediata euforia però è subito intaccata dal sospetto e viene riportata alla giusta misura dalla coscienza, da uno strano senso del pudore, proprio di chi è abituato a misurare la propria libertà contando le mine antiuomo e le scariche di mortaio.
In fondo al tempo del sogno c’è il miraggio delle Olimpiadi. Non quelle di Pechino, dove Samia arriva quasi per caso, come protagonista di una sgangherata delegazione approdata in Cina più per dovere di rappresentanza che per un’effettiva speranza di competere con paesi che sanno fare dei propri atleti dei professionisti. A Pechino Samia proverà l’assurda sensazione di arrivare ultima ed essere comunque fatta oggetto delle attenzioni dei giornalisti e dei media internazionali: Samia è «la ragazzina di diciassette anni magra come un chiodo che viene da un paese in guerra, senza un campo e senza un allenatore, che si batte con tutte le sue forze e arriva ultima». Sono proprio quegli istanti di celebrità che ricaricano in lei il bisogno di un sogno vincente: arrivare a Londra, conquistare l’oro e mostrare che la Somalia, anche se in guerra, anche se divisa, è fatta di uomini e donne che possono eccellere nel mondo. Vincere le Olimpiadi non varrebbe nulla se Samia non potesse, attraverso la vittoria, rivendicare la sua appartenenza alla propria nazione, la Somalia, e al proprio genere, le donne, quelle che per le strade di Mogadiscio non si vedono, perché sono coperte da veli, perché devono stare chiuse in casa. Restare in Somalia però è diventato impossibile: in Somalia non si può essere un’atleta professionista, in Somalia avere delle ambizioni non è concesso, in Somalia anche i migliori amici sono diventati nemici, corrotti da una promessa di ricchezza e potere che azzera ogni solidarietà. Samia capisce che deve partire, mettendo il proprio sogno a repentaglio lungo il tempo del viaggio, perché il viaggio è qualcosa che non può essere controllato, è un tempo regolato da leggi inconoscibili, dove alle difficoltà della traversata del deserto si sommano gli ostacoli rappresentati dalle meschinità, dai desideri sporchi e spietati dei trafficanti.
Apparentemente il tempo del viaggio dura solo pochi mesi, quelli necessari ad arrivare da Addis Abeba, in Etiopia, fino alle coste della Libia, dove Samia si imbarcherà per l’Italia. Tuttavia, questi mesi sono già stati preparati da quanto la guerra in patria ha progressivamente eroso e corroso dello spirito vitale di Samia. Il tempo del viaggio si potrebbe far iniziare, infatti, con quel divieto di “toccare” il mare che dura da quando Samia è nata e che per lei, cresciuta a pochi passi dalla spiaggia, rappresenta una privazione paradossale e crudele. Altrettanto crudelmente, il tempo del viaggio si concluderà proprio quando Samia sceglierà il mare con l’ultimo disperato gesto della sua vita, gettandosi nelle acque fredde dello stretto di Sicilia.
Il tempo del viaggio, la fatica delle ore di camion schiacciata ai corpi dei propri vicini, le umiliazioni prodotte dagli abusi di potere dei trafficanti, l’aggressività disperata nello sguardo di chi s’interroga se la tua sopravvivenza determinerà la sua morte, trasformano lentamente ma inesorabilmente Samia. Il deserto, insieme all’orizzonte dello sguardo, azzera anche la linfa che rende il cuore un muscolo caldo e pulsante. Anche se non dimentica mai il proprio obiettivo, Samia vede tuttavia accorciarsi progressivamente la portata del proprio pensiero; il tempo dell’imminenza, dell’urgenza si sostituisce a quello del progetto e un individualismo secco prende il posto del senso di solidarietà.
Parlando di 12 anni schiavo, l’ultimo film di Steve McQueen, Christian Raimo si è soffermato su una scena in cui Solomon Northup, musicista nero benestante, uomo libero che si trova improvvisamente, per una truffa, schiavo al servizio di un bianco possidente, comincia a cantare insieme ai propri compagni di lavoro e, con quel gesto, accetta la propria condizione di schiavo, cercando e trovando in quella musica la forza per resistere e continuare a pensare il futuro. Anche se un futuro cortissimo, fatto di minuti invece che di giorni o mesi. La sua libertà, da diritto negato si trasforma così in una scelta: nello spazio che separa la vittima dal’uomo che vuole scegliere la propria condizione può maturare il momento della liberazione.
C’è un momento simile anche nel viaggio di Samia. Fino a un certo momento lei si è sentita diversa dai propri compagni di strada: la loro miseria, le loro sfortune non avevano niente a che fare con lei, che nutriva ancora forte il senso di essere una predestinata, una ragazza destinata a un futuro diverso, neanche lontanamente immaginabile per i vecchi e le donne accalcati insieme a lei sul camion: «Pensavo alle Olimpiadi di Londra del 2012 e mi dicevo che io lì in mezzo non c’entravo niente». Poi, a poco a poco, quella certezza si sfalda, la debolezza si fa avanti, matura la consapevolezza della propria difficoltà e Samia capisce di non essere diversa dagli altri: «Ho accettato che quella, adesso, era la mia condizione. Mi ero trasformata in una viaggiatrice. Non avevo scelta, se volevo sopravvivere». È questo il momento più difficile nel tempo del viaggio: trasformarsi in “profughi”, accettare di essersi posizionati sul versante di quelli che devono farcela ma non sono sicuri che ci riusciranno, perché nessuno darà loro una mano, perché si troveranno in una concorrenza insensata l’uno con l’altro, convinti che dalle sventure altrui dipenda la propria fortuna. È in questa condizione che Samia arriva a imbarcarsi per la Sicilia; da profuga, sola e disperata, Samia va incontro al proprio tragico destino.
È qua, credo, il valore maggiore del libro di Giuseppe Catozzella. È in questo punto che il racconto sfonda il limite che porta ogni lettore a domandarsi quanto di quello che sta leggendo potrebbe corrispondere alla realtà dei fatti e tocca la corda che fa vibrare il sentimento dell’umano. Un sentimento universale, che prescinde dalla verosimiglianza della lingua messa in bocca a Samia, dagli espedienti retorici necessari a costruire uno scarto a tratti manicheo tra tempo del sogno e tempo del viaggio. Un sentimento che tocca il lettore in quanto ha di più caro, in quanto dà per scontato e naturale della propria esistenza, che invece non è altro che l’esito di una scelta, di una conquista, che in alcuni casi può anche fallire. La libertà, la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita si mostrano nella storia di Samia in tutta la loro fragilità. E quando queste condizioni vengono meno si apre lo spazio in cui ha luogo quel processo devastante che porta all’azzeramento dell’umano, che nel racconto si determina istante dopo istante, con la stessa calma millimetrica e irreversibile con cui l’intero deserto potrebbe riversarsi da un capo all’altro di una clessidra, granello dopo granello.
Tutt’attorno, un paesaggio lunare, in cui cielo e terra sono un’unica cosa. Si perdono i punti di riferimento. È come lanciarsi dentro uno specchio. Una distesa di sabbia infinita. Talmente omogenea che finisci per diventare sabbia anche tu. Non soltanto perché s’infila ovunque, e dopo pochissimo riempie anche gli occhi, la gola, i polmoni, e devi deglutire per non farla seccare nelle fauci. Presto smetti di combatterla e semplicemente chiudi gli occhi, stringi le mascelle e conti. Conti fino a mille, e ogni cento mandi giù quel poco di saliva che ti è rimasta, tenendo il conto con le dita. Poi fino a diecimila. Sai che quando arrivi a mille saranno passati venti minuti. Questo me l’ha insegnato Amir, un somalo nel primo viaggio da Addis Abeba a Al Qadarif. Allora conti fino a diecimila. Sono tre ore. Quando fai tre volte diecimila è quasi il momento della sosta. Continuando così finisci per diventare sabbia tu stessa, perché ti vedi piccola come un granello di quella distesa di bianca, o come uno dei secondi che non smetti di avere in testa, come una matta.
Non dirmi che hai paura potrebbe anche finire su queste parole. Arrivare fino al momento della morte di Samia diventa un esercizio di violenza ulteriore, sicuramente non gratuita. Quando l’uomo è ridotto al conteggio del tempo che lo separa dalla propria fine allora l’opera di annientamento è compiuta, e la morte rappresenta una semplice appendice fisiologica. Da qui in poi nulla potrà più intervenire a redimere Samia. Soprattutto perché questa redenzione non deve essere compiuta da chi corre verso l’Europa inseguendo il proprio sogno, bensì da quella stessa Europa che si rifiuta di accogliere, di concedere all’Altro l’occasione di scegliere e conquistare la propria libertà; quell’Europa che si lava la coscienza nascondendo dietro legittimi accordi internazionali la propria collusione a un sistema fondato su una vera e propria tratta degli uomini.
Noi oggi, grazie a Giuseppe Catozzella, leggiamo la storia di Samia perché il suo sogno era più grande degli altri; un sogno arrivato fino in Cina, e di lì alle cronache dei paesi occidentali. La grandezza di questo sogno ha fatto sì che noi oggi possiamo conoscere e amare Samia. La sfida di un libro come questo, tuttavia, va oltre l’ammirata attenzione che riconosceremo a Samia e al suo orgoglioso sogno. Non dirmi che hai paura avrà raggiunto l’obiettivo se dalla sua lettura riusciremo a farci sensibili anche ai sogni più piccoli, quelli di tutte le persone che ogni giorno intraprendono il viaggio senza che nessuno prima abbia mai parlato di loro. Rendere sensibili a sogni meno memorabili, meno pubblicizzabili: è questo l’oneroso compito di una scrittura che, accettando il rischio del fallimento, prova ancora ad assumersi le responsabilità più grandi.