“Posso tranquillamente dire che senza Magrelli non esisterei, come non esisterebbero tanti di noi [poeti]”: parola di Stefano Dal Bianco, in un’intervista rilasciata a Claudia Crocco, pubblicata nel marzo 2013 su www.quattrocentoquattro.com. Sarà una provocazione ma è noto che uno dei libri più originali della nuova stagione sia stato pubblicato da un Magrelli appena ventitreenne, entrato fin dall’esordio nel catalogo Feltrinelli, anno 1980. E da poche settimane lo ritroviamo in libreria con il suo sesto libro di poesia, Il sangue amaro, einaudiano, come il resto della sua produzione da quasi un ventennio. Molto è cambiato in quasi quarant’anni di scrittura: l’esordiente scafatissimo e colto che si interrogava sull’io scrivente ha nel corso dei decenni allargato la sua visuale, toccando con somma intelligenza molti nodi e problemi delle società post-industriali, fino a quest’ultima amara e impietosa satira della realtà e della politica italiane. Lascio al lettore il divertimento di scoprire come tanto malcostume possa trasformarsi in poesia. Andrò – mi si perdoni lo sgarbo – a rovescio, isolando quei pochi idilli che per abilità versificatoria e profondità umana meritano una non secondaria attenzione.
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El memorioso
Ingegnoso, mio figlio si chiude nella doccia
incolla un foglio al vetro, dall’esterno,
e per un’ora, immerso nel vapore,
impara a memoria Ugolino.
Scendono l’acqua e i versi, lui sussurra,
mi costa una fortuna, ma alla fine
esce lavato, profumato, pieno
zeppo di endecasillabi.
Sotto il titolo borgesiano, si sviluppa in due quartine una situazione banalissima: uno studente escogita un modo, dispendioso ma rilassante, per imparare a memoria il canto di Ugolino. Che cosa colpisce di questa poesia? Il trucco è semplice: l’unione di acqua e versi in un flusso unico e detergente. Insieme “scendono”: il verbo onomatopeico fa percepire lo sciacquio dell’acqua e la parallela dolcezza dei versi che si susseguono, scivolando dal foglio alla bocca del ragazzo. Un sussurro accompagna e cattura questa musica, nel tempo dilatato di un’ora, in mezzo al vapore. Alla fine il profumo, corporeo e letterario, corona questa impresa. Echi sonori conducono il fraseggio di questo micro-racconto: ora… vapore… impara… memoria; esterno… immerso… versi; Ugolino… fortuna… fine; sussurra… fortuna; lavato… profumato. A confermare l’impressione di regolarità e armonia, si sentano i settenari (doppi o incassati nell’endecasillabo), la disinvolta coincidenza fra respiro metrico e sintattico, la chiara ripartizione fra le quartine. Incantevole e misurato, il risultato prescinde da slanci o virtuosisimi, e recupera la lezione di sobrietà di autori come Auden e Frost, ammirati da Magrelli per quella che egli ha chiamato una “patina ottocentesca”.
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Due amici (I)
Visto che compirai i tuoi settant’anni
sedici prima dei miei, dimmi:
com’è, da lassù, il panorama?
Qui non si vede niente,
è tutta una salita,
figurati che già mi sento stanco.
Allora brindo a te,
da questa cengia,
alla tua vetta altissima,
al tuo profilo
più giovane del mio
I movimenti della poesia sono essenziali: il festeggiamento di un nuovo compleanno, un brindisi d’auguri. “Visto che”, “allora”: com’è chiara questa poesia. Le contrapposizioni sono elementari: tuo, mio; lassù, qui; vetta, cengia. La poesia è nitida come una fotografia. Fotografo è l’amico dedicatario, Pino Varchetta, pulito nei suoi scatti come lo è il poeta in questi versi: una semplice metafora montana, un bell’incipit endecasillabico, il tono confidenziale come una pacca sulla spalla. L’inversione temporale in chiusura, inaspettata e paradossale, chiede al lettore di soffermarsi su questa poesia d’occasione: l’infrazione logica risponde a un’esigenza di cortesia? O la giovinezza si misura con un metro diverso da quello anagrafico? Il brindisi diventa un augurio cifrato che il destinatario dovrà risolvere, e la banalità dell’occasione viene aggirata: non certo transito dell’ovvio né messaggio consumabile, la poesia diventa tessuto vivo attorno a cui il senso orbita di continuo senza farsi disintegrare.
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Cave cavie!
O forse sono cavie, queste poesie che scrivo,
per qualche esperimento concepite,
che tuttavia non so.
Non so perché si formano,
eppure mi affeziono e le chiamo per nome,
topolini vivissimi, allarmati
da che?
Quanti dubbi attraversano questa poesia sulla poesia! Nessuna certezza sulla propria arte, le cui ragioni si sviluppano e si avviluppano come attorno a “un sarto / che sia la sua stessa stoffa” (così nel fortunato libro d’esordio). La poesia resta quell’arte inutile di cui non si rinvengono le finalità pratiche: nuda creatura verbale esposta al soffio dei lettori, offerta a un destino di cui si ignorano i percorsi, essa non si separa mai del tutto da un cono d’ombra che la razionalità o il pragmatismo vorrebbero dissipare. Può un poeta non sapere cosa stia producendo? Perplessità delle persone ‘concrete’, ‘con i piedi per terra e la testa sul collo’: eppure il poeta sa che non sapendo può lasciarsi condurre in una luce nuova. Scriveva infatti Magrelli alcuni anni fa: “Come uscire da un tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste nel capire che l’opera non va considerata come un oggetto dominato dall’autore, bensì come un processo che trasforma l’autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, bensì per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove” (V. Magrelli, Che cos’è la poesia, Luca Sossella, Roma 2005, p. 14).
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Per una ventenne
Ragazza con i tacchi
altissimi, se oscilli
(a spillo) oscillo anch’io
mia spiga, figlia.
Non prendetelo per un haiku! Tre settenari e un quinario, allitterazioni strettissime, l’accento sulla stessa vocale in tre versi consecutivi, la quasi-rima fra “tacchi” e “anch’io”, concentrano nello spazio di quindici parole tutta l’abilità poetica di cui Magrelli è capace. Chissà che la forma sonora non riproduca anche una forma plastica: l’insistenza sulla “i” può essere – nel gioco calligrammatico già più volte praticato da Magrelli – immagine e icona della figlia svettante sui tacchi a spillo? Lo sfruttamento di tutte le risorse verbali è una cifra della scrittura di Magrelli, e anche in questo caso appare come processo mimetico che allinea perfettamente significante e versante semantico. Così la filiforme statura, ondeggiante sugli spilli, richiama anche una spiga, ancora per evidente affinità iconica e con espansione semantica verso una immagine carica di allusioni.
V. Magrelli, Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014, pp. 149, € 13