di Sergio Peter
Per ora so solo che vedrò un documentario.
All’inizio una voce mugula e c’è una luce rossa, un riflesso, sovraesposizione dell’occhio al mondo. Un grosso macchinario trafora il terreno e pompa il petrolio, su e giù, su e giù: moto meccanico e danzante. Estrae. Questo fu il primo giacimento petrolifero messo in funzione in Cina, a Yumen, provincia di Gansu. Poi vengono delle finestre rotte e pareti smangiate dal vento. Ma è possibile sentire una bella musica in sottofondo – come quei brani da radio popolari che Kaurismaki sceglie per i suoi film – immagini di deserto e apocalisse in contrasto con una canzonetta allegra e pop. Un fischio segue il canto e si posa su un uomo, così piccolo visto da lontano, che esce da una grotta, cammina e infine si sdraia nella neve.
La luce rossa si espone, si dilata e differenzia lo sguardo sulle pecore al pascolo, mentre un uomo, forse lo stesso di prima, risale un dorsale a quattro zampe. Un operaio con l’elmetto rosso mangia una mela seduto a gambe incrociate su una gradinata deserta.
Quando beveva troppo malediceva questo posto, Yumen. Meglio se un terremoto avesse seppellito Yumen.
Poi in piedi un individuo batte insieme due lampadine in una stanza, e le fa suonare, davanti al murales di una figura di spalle con due borse della spesa in mano, sagoma di un fantasma mai più ritornato. Consumo che uccide. Vedi una ragazza entrare in scena, salire in piedi su un piccolo cumulo di macerie e declamare una nenia.
Nessuno sa da dove venga quest’uomo, l’uomo della grotta. Gli piaceva stare nudo.
Così, mentre la ragazza si pettina, là di fuori, nel deserto, su una colonna, come un postmoderno stilita fuori tempo, frantumato e spogliato di ogni ideale, l’uomo della grotta denudato in piedi muove le braccia come volendo volare, poi si raccoglie su se stesso, raggomitolato.
Le macchine traforano e il fumo esce dalla terra. Continui passaggi rossi sulla pellicola; una musica di viole e violoncelli accompagna dei conigli che mangiano erba.
E mentre l’uomo fuma appoggiato ad un muro fracassato parte un brano dance, la scena si amplia e inquadra la ragazza che balla di spalle davanti a lui. Questa ragazza ondeggia, muove le braccia, si gira, mentre l’altro guarda serio nel vuoto. Totale dedizione alla rovina e dispersione.
Quando la vecchia spazzola il collo di pelo c’è un sottofondo come di radio o tv, ma la tv è spenta. E quel fastidioso gracchio, voci indistinte, musiche e grida, suona come un richiamo; anticipa per così dire il labiale della ragazza muta, che grida in un tubo, il mugugno triste lanciato alle fabbriche dismesse, ai palazzoni rossomattone deserti, alle strade impolverate, lei grida, ma questo lagno da chi può essere raccolto? L’uomo che dormiva continua a dormire, si gira solo su un lato.
Nel vento cani assatanati si abbaiano contro. La ragazza disegna con un gesso rosso sul muro di calce: accenna un cerchio, emoticon che sorride. Quando s’allontana sopraggiunge l’artista, che disegna a sua volta e copre l’immagine della ragazza con un volto nero, buio, che guarda la telecamera cinico, indistinto incubo. Il ghigno rosso è coperto.
Sopra l’illustrazione dell’omino sulla colonna appeso a un filo che si muove uscendo dal foglio, qualcuno stende della vernice nera. Allucinazione. Documentare l’inconsistenza dei posti che non hanno ragione di esistere. C’è una lotta tra diverse forme di resistenza: l’arte, l’eremitaggio. Due corpi che s’incrociano senza guardarsi né fermarsi in un campo vuoto e deserto. Voci che parlano di un fantasma malato in un ospedale. Del compagno morto alcolizzato, parlano. “Non portare più quei fiori al suo capezzale, costano troppo”. I temi sono la malattia, l’adulterio, l’isolamento. Rumore di passi su visi morti o anestetizzati, volti che in ogni caso non ci sono più; sono gli stessi che dipinge l’artista nel suo studio: figuri tratteggiati a grandi linee, frammenti di vite perdute, neri, lividi. Donne camminano mano nella mano. La poesia è scombinata, la musica non segue le immagini, il calpestio sulle pietre prosegue oltre se stesso. Periferica visione distorta.
So che hai gli occhi aperti. Non vedi nulla con questo buio. Perché tieni gli occhi aperti? Dice la voce fuori campo a noi nella sala.
La ricchezza della città di Yumen, quando c’era ancora il petrolio, portò con i soldi le droghe e le famiglie andarono in pezzi. Gli interni sono abbandonati al disordine. Il passato si scombina continuamente, non si trova nessun legame: il lavoro di recupero è già vano e inutile.
La donna e la ragazza bruciano l’elmetto rosso sulla sedia, e l’uomo dell’elmetto fuori ride, un riso infernale che gli fa eco, ride e gli fa eco.
La ragazza muta nel mercato cammina verso lo spettatore con la telecamera che la segue, e prova a cantare, ma non riesce, è impossibile un canto in questi posti. Piano-sequenza da videoclip amatoriale. Palazzi grigi come ammuffiti. Un pianto, dei mugugni e mormorii indistinti.
La signora balla davanti ai ritratti neri tratteggiati dall’artista, performance nella sala del pittore deserta, gira su se stessa e muove le braccia. Il colore rosso del cappotto è la sua forma di ritiro dal nulla?
Nel campo disabitato uno specchietto tondo in mano all’eremita riflette la luce del sole e la manda allo spettatore; delle pellicole vengono guardate in controluce.
Una lunga carrellata di muri, fabbriche, vie deserte, finestre in frantumi; pareti e porte che scorrono. La musica in sottofondo è allegra e bella. Controcanto. Poi d’improvviso s’interrompe. La telecamera accelera e poi si ferma. Schermo nero. Dalle finestre d’un palazzo, su un balcone escono uno dopo l’altro l’operaio, la donna col cappotto rosso, l’eremita e la ragazza. Tamburi.
Sui titoli di coda le persone sono intorno a un tavolo con torte e cibo; ballano, scherzano e ridono.
Girato in 16mm da tre registi, JP Sniadecki, filmmaker e insegnante, Xu Ruotao, artista, e Huang Xiang, artista e performer, montato durante il Festival del cinema indipendente di Pechino del 2012, per via del fatto che venne proprio lì impedita dal governo la proiezione di tutte le opere presentate in concorso. Girato nella città fantasma di Yumen, passata da 200.000 a 8.000 abitanti dopo l’esaurimento dei pozzi di petrolio e lo spostamento in massa della popolazione da parte delle autorità locali. Così spiega Sniadecki.
Il risultato è un collage perverso e straniante; la frammentazione che lo caratterizza è la stessa che lo ha visto nascere: da una parte l’esperienza spezzettata dei ricordi della gente del posto, che ha contribuito attivamente alla nascita delle idee, e dall’altra l’interruzione dei lavori presso il festival.
Vietato tre volte in patria. Ribellione a ogni forma di potere tramante. Il capitale che sposta la gente qui non c’è più, è una cittadina sopravvissuta per inerzia e diventata sintomo. La malattia è là fuori.
Volevano fare un film che non somigliasse a nulla di mai visto prima. Quando da spettatore pensi d’aver trovato un filo, subito si spezza, si va già da un’altra parte. “Pornografia delle rovine” autodefiniscono la propria opera. Frequenti riflessi rossosangue, alternati delle volte col bianco, impediscono completamente la visione, e il collegamento tra le varie scene.
L’indagine sul paesaggio distrutto si fa indagine sull’umanità finita. Scampoli di rinvio ad altre possibilità restano soltanto nelle arti: il ballo (quelle danze scanzonate fuori tempo e fuori luogo), la musica (una gran bella colonna sonora, partecipe attiva e slegante di tutta la narrazione), e l’arte visiva.
Figure superficiali e non più umane assorbite nella loro resistenza al paesaggio apocalittico: l’eremita finisce nudo su una colonna perché così gli piace fare e l’uomo dipinge ininterrottamente volti accatastati e derelitti perché è l’unica cosa che gli riesce, come quei balli di donne in giacconi.
Un tentativo riuscito di coniugare arte performativa e critica sociale della Cina contemporanea. La disfatta non viene ricomposta, non si cerca consolazione alcuna: queste macerie abbiamo costruito. Scandaglio del buco umano e visivo lasciato dallo sfruttamento della terra. Quante altre cittadine così stanno buttate là fuori nelle vaste spianate cinesi inginocchiate al dominio del profitto?
Mentre aspettavo d’entrare nella sala, alla mostra dedicata al pane là sopra all’Oberdan, ho osservato un breve filmato dove a un certo punto si vede di sfuggita un grasso contadino in mutandoni correre giù per una strada sterrata: è sempre possibile rispondere alla follia abbandonandovisi.