di Massimo Cotugno
Se ne parlava da giorni. Un documentario sugli italiani a Berlino, finalmente qualcuno prova a raccontare sul grande schermo questa nuova stagione di migrazioni, sempre più crescente negli ultimi anni. Il titolo, poi, azzeccatissimo: La Deutsche Vita, quasi fosse l’insegna di un ristorante italiano in Germania, allo stesso tempo scontato e perfetto nel fotografare la Berlino attuale, una città per certi versi speculare alla Roma felliniana tra gli anni cinquanta e sessanta. La capitale tedesca è infatti al momento la meta più glamour d’Europa, proprio come lo è stata la Città Eterna molti anni fa, un luogo in grado di catalizzare speranze e desideri di intere generazioni e di plasmare l’immaginario di donne e uomini in cerca di una strada alternativa, in fuga da un futuro mediocre o da una vita che li relegava al ruolo di meri spettatori. Berlino, però, proprio come la Roma di Cinecittà e dei paparazzi, è un luogo dove si approda spesso senza un’idea precisa sul proprio futuro, una sorta di dolce purgatorio, in cui sostare per un po’ a fare incetta di esperienze, oppure nascondersi, mimettizzandosi per bene nel sottobosco urbano di una città in continuo e rapido mutamento, monumento e laboratorio allo stesso tempo. Così Berlino è diventata la terra promessa dei figli della crisi economica, l’oasi dei creativi, dei geni dell’informatica, dei musicisti, ma anche dei perdigiorno e degli improvvisatori. E chi meglio degli italiani possiede l’arte di arrangiarsi, di portare a casa una giornata con un pizzico di fantasia? Questo sembra sottolineare il documentario di Alessandro Cassigoli e Tania Masi, che in apertura ricorda come quella italiana sia attualmente la terza comunità più grande di Berlino (20mila italiani vivono ufficialmente qui, più altri 10mila secondo alcune stime). Il documentario è composto da una serie di storie tenute insieme da una voce fuoricampo, che ci spiega come, giunta la crisi del settimo anno trascorso a Berlino, il regista Cassigoli si sia domandato il perché della sua permanenza nella capitale teutonica e per trovare una risposta abbia cercato e trovato la solidarietà di compatrioti che quella stessa crisi la stavano vivendo o l’avevano già superata.
Il tono è leggero, si direbbe quasi da commedia. Sulle note di un irritante e stereotipato mandolino, passeggiamo per una Berlino grigia e malinconica, fredda come non mai. Il nostro primo cicerone è un attore quarantenne in cerca di una parte adatta, ma che per il momento alterna lavoretti a provini poco riusciti, dove lo scartano perché sprovvisto dei tratti del tipico italiano (moro e con i baffi); ascoltiamo poi la curiosa vicenda di un cuoco che voleva andare a Parigi e si è trovato invischiato nella ragnatela berlinese quasi senza accogersene, perché Berlino non avrà l’allure della Ville lumiere, eppure sa ammaliare, ti convince lentamente, e alla fine, come una moderna terra dei lotofagi, ti fa dimenticare i tuoi veri propositi. Forse a Berlino “è più facile non fare un cazzo” come esprime in maniera diretta il proprietario italiano di un negozio di dischi di Kreuzberg, ed è per questo che ormai da diverso tempo non sono solo i geni con due master a cercar fortuna da quelle parti. Ma nel documentario ci vengono presentate anche storie più “edificanti” come quella di un video maker consapevole di non poter sostentarsi con gli inesistenti introiti delle sue produzioni amatoriali, e che quindi vende bruschette al mercato, oppure la giovane immobiliarista italiana che trova appartamenti a Berlino per connazionali attirati dall’ancora conveniente (seppur per poco) prezzo del mattone tedesco.
Da apprezzare certamente una certa carica demistificatoria di questo lavoro, la quasi educata demolizione di un piccolo Eldorado. Meglio metter in guardia: chi pensa di trovare più spazio per la proprio creatività nella terra promessa in cui tutte le cose hanno un inizio (le start up) spesso resta a fare i lavapiatti, soprattutto se la sua idea non è poi così buona.
Eppure qualcosa non torna, la sensazione di trovarsi di fronte a un lavoro fuori fuoco è troppo intensa per essere ignorata. Per quanto non ci sia alcuna pretesa di natura scientifica in questo documentario e la resa sia esplicitamente naif, resta il dubbio sul valore di questo progetto che sembra aver trascurato la seconda ondata migratoria a Berlino, quella dei digitalizzati, per soffermarsi quasi unicamente sugli immigrati “storici”, quelli dai quarant’anni in su. L’inaspettato taglio fa pensare a un prodotto destinato più a un mercato cinematografico estero, che vuole comunque essere confortato nelle sue certezze sugli italiani (grandi gesticolatori, produttori di cibo, un po’ fannulloni, ma così simpatici) che per quello italiano. Un’occasione persa forse: tra i giovanissimi del Bel Paese trasferitisi nella capitale tedesca, avrebbe trovato molta meno retorica malinconia e più autentica ambizione di quanta forse si sarebbe immaginato; sarebbe stato interessante intervistare chi lavora in qualche coworking dove spesso le start up italiane muovono i primi passi per poi divenire in molti casi realtà di successo, oppure scovare uno dei tanti interessanti circoli o enti culturali italiani a Berlino, dove può sorprendere la quantità e la qualità dell’offerta proposta.
Ma la città del Muro e della sovietica torre della televisione è tra i luoghi più indecifrabili d’Europa proprio per il suo essere massa informe, in cui la stessa comunità italiana è immersa come in un liquido amniotico fertile e confuso, da cui è possibile estrarre le storie e le emozioni più diverse, senza mai trovarne due identiche.
La deutsche vita (Germania 2013, Documentario 61’) di Alessandro Cassigoli e Tania Masi