Detroit è una città fredda, come il resto del Michigan sudorientale soffre del clima temperato tipico del Midwest influenzato dalla presenza dei Grandi Laghi.
Nel 1896 Henry Ford decide di stabilire qui la sede del proprio impero industriale e con l’esplosione dell’industria dell’automobile già a partire dagli anni ’30, la città diventa capoluogo dell’immigrazione di molti lavoratori, sia bianchi che neri del sud, in cerca di riscatto dopo la lacerante crisi del ‘29.
Migliaia sono i nuovi abitanti di Detroit e la fine della seconda guerra mondiale porta ulteriore benessere e nuove condizioni lavorative, c’è un’Europa da ricostruire e da motorizzare.
Negli anni quaranta e cinquanta Detroit è una delle città più ricche d’America, una città benestante, con pochi ricchi, pochi poveri e una grandissima middle class che si allarga quartiere dopo quartiere. Il Michigan è forte della sua industria automobilistica che sembra invincibile e ha un governatore molto amato, George Romney, il padre di Mitt.
Ford, GM e Chrysler danno lavoro a tutta la città. Hanno tutti una casa in città, un cottage sui laghi, un’auto e una barchetta. Se vieni licenziato prendi l’80% dello stipendio fino a che non vieni riassunto.
C’è la fila per essere licenziati.
Il boom economico dura poco però, l’automatizzazione degli impianti riduce drasticamente la richiesta di manodopera e sintomo inequivocabile di un malessere sociale dilagante ne sono le tensioni razziali che in breve tempo subiscono una rapida escalation tra la comunità bianca e quella nera.
Il 23 luglio del 1967 le cose prendono una brutta piega.
Sono le prime ore dell’alba quando la polizia fa irruzione in un locale notturno della 12esima strada.
Il bar, noto come blind pig, vende alcolici senza permesso ed è aperto oltre l’orario di chiusura. La polizia pensa di trovare all’interno appena venti persone, ma sono almeno ottanta. Stanno festeggiando il ritorno di un veterano dal Vietnam. Mentre tutti i presenti vengono arrestati, fuori dal bar comincia a radunarsi una piccola folla. È un bar frequentato da afroamericani e l’intervento della polizia, tutti bianchi, fa scoppiare la rivolta. Alcune persone cominciano a saccheggiare un negozio di vestiti lì vicino e in poche ore gli scontri si allargano a tutta la città.
Cinque giorni di disordini: perdono la vita 43 persone, 467 vengono ferite e 7.200 arrestate. Oltre 2.000 edifici vengono distrutti e per fermare l’insurrezione George Romney è costretto a inviare la Guarda Nazionale e il presidente Lyndon B. Johnson manda l’esercito.
Fuori da una chiesa di Linwood Road, la statua di una Madonna viene pitturata di nero. Da questo momento in poi il volto di quella Madonna è pitturata di nero ogni anno.
Bianchi e neri litigano per comandare.
Ramon Rodriguez si era trasferito a Detroit già nei primi anni ’20; originario del Messico è in questa città che incontra Maria, anche lei di origini messicane.
Si trasferiscono al 831 di Michigan Avenue, proprio vicino a dove sorge la statua di Kosciuszko.
In quella stessa casa, in quella stessa via, il 10 luglio 1942 nasce il sesto figlio di Maria e Ramon, e decidono di chiamarlo Sixto.
Maria abbandona presto Ramon e i suoi 6 figli: muore quando Sixto ha solo 3 anni.
L’ambiente diventa difficile a casa e Ramon, lasciato solo, con un lavoro duro in fabbrica necessario per alimentare la numerosa prole, la sera si abbandona a svariati drink e alla sua chitarra, con la quale suona ballate folk messicane .
Sixto impara a suonare da autodidatta, imitando il padre, esercitando i primi accordi e riproducendo le canzoni di Jimmy Reed e Ray Charles.
A 16 anni abbandona la scuola, dato il poco interesse dimostrato sui banchi, e compiuti i 18 anni si rifiuta di arruolarsi nell’esercito, assetato di giovani leve dato l’impegno bellico in Vietnam promosso dall’amministrazione Kennedy e rinnovato da quella Johnson.
Sixto suona nei locali di Detroit, piccoli, in una città vasta, suona per negri e puttane, suona per chi ha un lavoro onesto e suona anche per chi mente come respira: di criminalità a Detroit ne gira parecchia.
È proprio nel clima di disordine e tensione sociale di quel 1967 che Sixto pubblica il suo primo singolo I’ll sleep away con il nome di Rod Riguez, per evitare qualsiasi tipo di stereotipizzazione razziale. Nonostante il buon lavoro di Harry Walsh che lo mette sotto contratto per la Impact Records, piccola casa discografica spin off della più grande MCA Records, il singolo è un fallimento totale.
Sixto torna a fare quello che faceva prima, suona nei locali di Detroit, e in particolare in uno di questi, The In-Between, locale gay, come il nome volutamente provocatorio suggerisce. Per il momento questo è sufficiente ad assicurargli una sopravvivenza; suona da solo Sixto, si possono fare più soldi in questo modo, non dovendo pagare altri musicisti, e suona di spalle al pubblico, dimostrando un imbarazzo allarmante. Guarda spesso la finestra che dà sulla strada, non si cura particolarmente di quanto succede in sala, occhiali scuri e grossi calati sugli occhi, capelli corvini, lisci, lunghi, tipico muso da ispanico di frontiera, personaggio che avrebbe potuto far parte del “cast” di Chiedi alla polvere, il capolavoro di John Fante.
È un periodo di crescita artistica e di sperimentazione per Sixto, modifica la sua chitarra acustica, inserendo un pick-up elettrico e suonando attraverso un amplificatore per basso Ampeg, scelta assolutamente insolita, ma che gli consente di ottenere un suono indistinto, vago, fuzzy si definisce in termini tecnici, e questo è esattamente quanto Sixto cerca di ottenere per meglio esprimere il contesto sociale all’interno del quale abita: confusione sociale, disoccupazione e tensione razziale.
È un cronista partecipe.
Si percepisce la lucidità di Bob Dylan, l’acidità di Arthur Lee, l’asprezza di Donovan, il senso di agitazione degli Animals e lo struggimento di José Feliciano.
Sixto scrive Crucify your mind.
La vita della Motown, soprannome di una Detroit a metà tra Motor e Town, ispira testi e canzoni, Sixto cerca e trova il suo groove, approfondisce il suo suono, la sua tematica diventa sempre più sociale, i testi sviluppano storie di vita quotidiana dove si annida l’imperfezione e la difficoltà di “un giorno dopo l’ altro”, di chi perde un lavoro due settimane prima di Natale, di chi pensa che prima o poi i propri debiti vadano pagati, di chi crede che il bacio più dolce mai ricevuto sia stato quell’unico che abbia mai dato.
Nick Drake sarebbe stato invidioso di questi testi.
È Clarance Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di lì a poco di un giovanissimo Michael Jackson, che gli propone un contratto con la Sussex Records, casa discografica di Los Angeles di proprietà della Buddah Records.
Clarence mette a disposizione una sala di registrazione e i migliori session man in circolazione, Dennis Coffy alle chitarre, Mike Theodore al piano, Andre Smith e Bob Babbitt alla sezione ritmica che aveva già lavorato con Marvin Gaye e Jimi Hendrix.
L’animo solitario di Sixto prende però il sopravvento, suonare con una band non è solo una questione di scelta artistica, a volte è l’espressione di un’indole, e Sixto ha sviluppato ed affinato il proprio stile senza il supporto di altri strumentisti; è cosi che decide, per mantenere pura e cristallina la propria esecuzione, che prima avrebbe registrato da solo le parti di chitarra e di voce, e solo successivamente, tramite sovraincisioni, sarebbero state aggiunte le parti complementari della band.
La gestazione dura 30 notti del 1969, 12 pezzi per 32 minuti e poco più compongono Cold Fact.
Sixto ha 27 anni e si racconta in un colpo solo come un giovane padre di due bambine, arrabbiato e deluso, affetto dai mali della società, “nato nel ventre di una città di cemento”, “accudito da spacciatori”, “cresciuto da cugini per strada”, dove “ha assaggiato l’odio e la recrudescenza”.
Ad ogni modo è la traccia di apertura, Sugar man, che segna il carattere della composizione di Rodriguez, stanco della scena, quasi svuotato; si vede in trasparenza quella vena di umiltà che segnerà tutta la sua vita, una dolce cessione al peso di un’esistenza che non ha risparmiato colpi bassi.
Come era già successo per il suo singolo di esordio, anche questo primo LP non ha per niente fortuna. Pochissime le copie vendute, del tutto insignificante il guadagno per la casa discografica, rea di non aver la forza necessaria per imporre il proprio artista sulle maggiori radio FM.
Lo stesso Rodriguez non eccelle per autopromozione, perde occasioni importanti inseguendo l’attivismo politico, la lotta sociale e la marijuana fa il resto.
La Sussex tuttavia crede in lui e nel ‘71 gli concede una seconda possibilità. La troupe si trasferisce a Londra per più di un mese presso gli storici Lansdowne Studios, le cui mura avevano già incrociato le gesta di Animals, Rod Stewart, Marianne Faithfull e Uriah Heep, e mette a disposizione dei collaboratori di tutto rispetto, tra cui il percussionista di Donovan, Tony Carr, il tastierista Phil Dennys (Cat Stevens e Bee Gees) e soprattutto il chitarrista Chris Spedding, noto per i suoi trascorsi con Jack Bruce e Mike Gibbs dei Nucleus.
Il risultato è Coming from reality.
Sixto è cresciuto ulteriormente rispetto al release del ‘70, le sonorità sono più mature mentre la lirica rimane legata alle stesse tematiche trattate precedentemente.
Tuttavia non succede niente.
Anche questo ulteriore tentativo si rivela un clamoroso buco nell’acqua.
Il disco non vende e la casa discografica decide di stracciare il contratto.
A 29 anni, con due figlie da crescere e senza un lavoro stabile Sixto decide di abbandonare definitivamente la carriera musicale e diventa un operaio edile per pagare l’affitto di casa.
Per sua stessa ammissione non smette di suonare, è una passione viscerale quella, ma cambia completamente vita. Lavora nei cantieri edili adesso, abbatte muri, costruisce case, e la sera per arrotondare lavora in un ristorante. Accetta con un superiore senso dell’esistenza un cammino, “un pattern” come lo definisce lui stesso con un vago retrogusto musicale dove si intende un motivo circolare che viene ripetuto, che gli viene imposto e al quale si arrende con un raro senso di umiltà.
“Non si può scappare alla realtà”.
La breve storia del musicista Sixto Rodriguez potrebbe finire esattamente in questo momento, senza nessun exploit, senza nessun avvenimento degno di nota, un musicista di quartiere che ha provato a percorrere il prestigioso e minato sentiero della musica come professione, ma che non ne ha cavato un ragno dal buco.
Passano una decina d’anni.
Dieci anni di buio artistico.
Se inspiegabilmente il mercato casalingo lo aveva rifiutato, dall’altra parte dell’Oceano, in Australia e in Nuova Zelanda le canzoni di Rodriguez avevano avuto un notevole successo, tanto da richiederne un tour nel 1979 che porta 12.000 persone al Regent Theatre di Sydney.
“Il vento fa il suo giro” avrebbe esclamato Giorgio Diritti.
Poteva essere un inizio di qualcosa lasciato solo pochi anni prima. Sixto invece, come se avesse ormai abdicato a qualsiasi velleità in merito,considera l’accaduto una simpatica interruzione dalla propria routine e di ritorno dal tour si precipita immediatamente al proprio lavoro, suscitando lo stupore di amici e colleghi, i quali non vogliono credere a quanto accaduto.
La portata della musica di Rodriguez ha infranto il muro dei confini nazionali e lui si ritira a vita privata?
La decisione ormai è presa, qualcosa si è spento dentro, non avrebbe avuto senso continuare.
Sixto decide di inseguire la carriera politica, presentandosi per due volte alle urne come candidato alle comunali della propria circoscrizione ma non superando mai il primo turno, ennesimo fallimento, e si iscrive all’Università per conseguire la laurea in filosofia.
Passano altri vent’anni, quasi.
Vent’anni di niente.
Sixto Rodriguez non è niente. Non esiste se non come un uomo qualunque.
È il 1997, il gioielliere Stephen “Sugar” Segerman, ed il giornalista musicale Craig Bartholomew Strydom dal Sudafrica decidono di aprire un sito e di andare alla ricerca di Sugar Man, inaugurando “The Great Rodriguez Hunt”.
Una ragazza di Detroit, Eva, trova su internet tracce di questa folle ricerca che arriva da 12.000 km di distanza. Incurante del fuso orario telefona a Capetown nel cuore della notte al recapito di Stephen Segerman per comunicargli qualcosa che per lui era del tutto impossibile.
Sixto Rodriguez è vivo, e lei ne ha le prove, è suo padre.
In qualche modo, che tutt’ora rimane oscuro, Cold Fact aveva intrapreso un viaggio totalmente indipendente dal proprio creatore ed era sbarcato in Sudafrica. Leggenda vuole che fosse arrivato portato da una ragazza come regalo per il proprio fidanzato e da quel momento inspiegabilmente si fosse diffuso tra i giovani a macchia d’olio. Era diventato il simbolo e la colonna sonora di una rivoluzione, il movimento anti-apartheid, ed era stato il refrain musicale di due generazioni che erano cresciute, si erano conosciute, avevano lavorato, avevano lottato, creato famiglie, creduto in certi valori e che avevano ascoltato le canzoni di Sixto Rodriguez, mentre lui tutte le mattine si alzava presto e andava in cantiere, totalmente ignaro della fortuna che lo stava accompagnando, rendendolo laggiù più famoso di Elvis Presley.
La leggenda lo aveva avvolto, dal momento che nessuno aveva mai avuto sue notizie lo si credeva morto, alcuni dicevano si fosse dato fuoco sul palco, altri che si fosse sparato un colpo in testa.
Dopo la scoperta è stato il finimondo, una nazione in delirio, sei date andate sold out organizzate in fretta e furia nel 1998, il concerto trasmesso dalla televisione di stato la SABC, la riscoperta di un eroe.
All’aeroporto, quando arriva, lo vanno a prendere in limousine e lui si sposta per lasciare passare l’auto, domandandosi chi mai avesse noleggiato una simile vettura. Quando gli comunicano che è per lui scoppia a ridere con le sue figlie, che ha portato con sé come fosse un viaggio di piacere per fare del turismo.
Due generazioni si commuovono, le immagini mostrano ragazzini di 12 anni e adulti di 50, i Rolling Stones non avrebbero avuto un’accoglienza più calorosa.
Nonostante ciò, Sixto Rodriguez continua ad abitare nella casa di sempre, non conosce arroganza, non traspare rabbia per non aver potuto vivere una vita che non è stata, è discreto e parla con una modestia imperturbabile, è come se fosse tornato nelle nebbie della propria leggenda.
Sixto Rodriguez ha semplicemente lasciato accadere la vita, non ha avuto l’arroganza di volerla direzionare, impostare, prevedere o in qualche modo piegare alla volontà di un dono che gli era stato concesso.
Nel 2013 Malik Bendjelloul gli dedica un docufilm, Searching for Sugar man, che vince una pletora di premi, dal Sundance Film Festival all’Oscar.
È appena passato anche qui da noi, ci ha appena sfiorato, il 21 marzo a Bologna e il 22 a Milano.
Sixto sapeva già tutto nel ‘67, ma nessuno lo aveva ascoltato:
And you can keep your symbols of success
Then I’ll pursue my own happiness
And you can keep your clocks and routines
Then I’ll go mend all my shattered dreams
Maybe today, yeah
I’ll slip away.