di Damiano Sinfonico
“L’occhio di un romanziere russo verso il mondo, o qualcosa del genere”: difficile sottrarsi alla tentazione di affrontare questo lungo carteggio come un romanzo russo, immenso e sterminato, costruito con centinaia di tessere, tirato da digressioni in ogni parte e precipitato in improvvisi gorghi ustionanti. Lo spessore di una vita, anzi due, raggiunge qui il peso specifico altissimo di una minuziosa e inesausta ispezione dentro le torsioni psicologiche più nascoste e l’alta tensione poetica, si ammorbidisce nei passaggi più frivoli e nei momenti di maggiori spensieratezza. Il termometro della scrittura tocca tutti i valori, caldi e freddi, ma nasconde dietro le mezze confessioni quelle strepitose debolezze che hanno strangolato ogni condizione di felicità.
Elizabeth Bishop e Robert Lowell si erano incontrati a una cena nel gennaio 1947, avrebbero di lì a poco instaurato una corrispondenza epistolare durata fino alla fine dei loro giorni: trent’anni vissuti con il fiato sospeso, ad aspettare e scrivere lettere, raccontandosi ed esponendosi al giudizio dell’altro. Spesso accludevano delle loro poesie: si gratificavano così, offrendo il travaglio della propria scrittura al piacere del corrispondente. Si ritenevano i migliori poeti sulla scena, eredi di quella tradizione modernista che in America ha contato nomi come Pound e Eliot, Williams e Moore; dopo di loro sarebbero venuti i giovani tormentati come Sylvia Plath e Anne Sexton, gli scrittori beat e altri tutt’oggi attivi (Mark Strand un nome su tutti).
Nel loro carteggio hanno incrociato giudizi e ritratti, perplessità e confessioni. Non hanno lesinato anche attriti e incomprensioni, ma qualcosa di più forte li legava. Negli ultimi mesi di vita, ancora ritornavano con la memoria ai loro primi incontri. Forse è stato amore. Forse una irresistibile attrazione per la fragilità altrui. Simmetrie non troppo nascoste: i continui ricoveri in ospedale e i tormenti esistenziali hanno costellato le loro vite e il loro carteggio. I disastri sentimentali, le solitudini improvvise e le morti strazianti di amici o amanti hanno fatto il resto. Due caratteri difficili, sommersi dal loro lavoro, una vocazione più che un mestiere, un reale abbandono nelle fiamme della scrittura.
“Certe volte per me non c’è niente di più solido dello scrivere. Dev’essere questa la vocazione – a volte un tormento, una cattiva coscienza, ma alla fin fine uno scopo e un indirizzo” (RL, 2 luglio 1948). “Io sto sempre a combattere con sei o sette poesie diverse contemporaneamente nella speranza che, mentre presto loro ogni cura, una diventi all’improvviso abbastanza forte da prendere sola il comando e giungere a conclusione” (EB 11 gennaio 1949). “Io mi sono messo con accanimento a scrivere poesie, passando intere giornate azzurro e oro tipiche del Maine in camera da letto con una pessima lampadina da comò sempre accesa, il pigiama unto e bisunto di sudore, e ho sei poesie avviate” (RL 11 settembre 1957). “Che grande gioia sapere che stai di nuovo scrivendo poesie. Anch’io ho un bel po’ di roba vecchia. Solo che non prende fuoco” (EB 21 giugno 1958). “Dio sa quanto siano ridotte le possibilità di rompere la crosta, di scrivere qualcosa di vitale – bisogna avere a disposizione tecniche più svariate…” (RL 9 agosto 1960). “Dalle tue descrizioni le poesie incompiute dovrebbero essere stupende. È irritante, lo so, avere frammenti che stanno lì in attesa di un soffio che le animi” (EB 24 dicembre 1962).
Per Lowell non ci sono scorciatoie: al pane, l’obiettivo del poeta-uccellino, non ci si arriva sempre. Anzi è necessario un miracolo. La scrittura raramente fa centro, talento e fortuna non bastano: “se uno è molto fortunato e talentuoso, c’è un modo di scrivere che di fatto è plausibile, e oltre quello, un modo che è fecondo e interessante, e oltre ancora, un modo che per davvero arriva al pane – allora suona una campana e una poesia è, come diciamo noi, immortale” (RL 3 ottobre 1961). Per capire se una poesia è valida, Bishop mette di mezzo l’esperienza: “se dopo aver letto una poesia il mondo sembra come quella poesia per 24 ore, sono sicura che è buona” (EB 4 aprile 1962).
La bellezza, cardine e meta ultima di questa persistente e faticosa attività, accende la gratitudine: “adesso disponi pur sempre di quel meraviglioso gruppo di poesie per consolarti, e di quelle dobbiamo tutti essere grati” (EB 29 gennaio 1958). “ti prego, abbi cura di te e abbellisci il mondo (cosa che già fai) e lascia che gli amici con loro contento godano di te” (EB 11 agosto 1957). Il dono, naturalmente, riempie di bellezza il mondo: “Mi sveglio nel gelo dell’alba e attacco con tutta la fiducia del mondo. Le montagne allora sembrano fluttuare nel vino rosé, con una scodella di latte sotto” (RL 17 luglio 1955).
Nello sguardo dei due poeti cade però non solo il proprio lavoro, ma anche un’intera società letteraria che attorno alla poesia crea i suoi riti e le sue amicizie. La resistenza alle mode ha dettato alcuni giudizi netti: comune la venerazione per Pound, Eliot, Moore, comune anche lo spregio per i poeti beat: “sono fasulli perché da pochissimo talento hanno ricavato un sacco di pubblicità” (RL 7 aprile 1959); “fanno accapponare la pelle […] mancanza di cultura, oltreché di talento” (EB 5 maggio 1959). Nel mirino finiscono anche i francesi: gli esistenzialisti “sgraffignano a man bassa” (EB 28 luglio 1953); su Char: “Io ho il sospetto che dentro non ci sia niente” (EB 2 dicembre 1956); su Ponge: “com’è come non è, i francesi se la cavano sempre” (EB 28 ottobre 1962). Infinito l’amore per i russi e la nuova rivelazione, Pasternak. Ai margini restano gli italiani, semi-sconosciuti, se non per il nome di Montale grazie alle traduzioni di Lowell (il quale affermerà un’influenza montaliana nella scrittura di The Drinker) e quello di Ungaretti per una serata in suo onore presieduta da Lowell nel 1964. Durante un lungo viaggio Lowell scrive lettere poco elogiative della cultura italiana del dopoguerra, percepita come “una Francia provinciale” (6 dicembre 1950) e resta incantato da Tasso, benché gli dedichi un giudizio stucchevole.
Memorabili alcuni ritratti. Il più suonato era Pound: “quando ha saputo che mi sarei trattenuto solo per quel giorno, ha ignorato bellamente i convenevoli, si è tuffato in medias res e mi ha istruito su come insegnare la storia dal 1830 al 1860” (RL 1° gennaio 1954). Ce n’è per tutti: Eliot “è manifestamente molto debole e invecchiato e spaventato dalla lontananza della moglie, però per telefono mi ha cantato una canzone spiritosa intitolata Mr Caruso” (RL 3 aprile 1964); Mary McCarthy “se mai dovesse uscire di senno, non saprebbe più quali parti della sua vita ha vissuto e quali scritto” (RL 29 dicembre 1955). Fino a un anonimo compositore: “un tipo in gamba, beveva succo di limone, metteva cravatte gialle e suonava Bach per equilibrare i fluidi corporei” (RL 6 dicembre 1950). E, naturalmente, gli editori: “Più conosco gli editori e meno li capisco – sul serio, sono una manica di fessi” (EB 10 luglio 1957).
Si affollano anche impressioni politiche, espresse da due osservatori privilegiati: l’America di Kennedy e Johnson, sotto i quali Lowell vede crescere la propria popolarità nei panni di figura pubblica impegnata; il Brasile dalle turbolente rivoluzioni, in cui Bishop trascorre con Lota, la sua compagna, diciassette anni. Numerosi gli scambi affettuosi, i racconti della propria quotidianità, delle proprie malattie, dei dissapori sentimentali. Banditi sono invece i ricordi non condivisi, un velo di pudore è steso anche su altre debolezze.
L’intero carteggio è percorso da una percezione condivisa dai due corrispondenti: quella di un legame talmente forte da proiettare su un campo ideale un contatto fisico di estrema vicinanza. “Se non ci sto attento, ogni chilo che perdi tu lo prendo io” (RL 1° gennaio 1954). Gli incontri reali sono pochi, punti rari rispetto alla tela vastissima di lettere scambiate. “E adesso per un attimo, seduto sull’erba secca sopra il porto a rileggere la tua lettera, ero quasi te” (RL 5 settembre 1968).
P.S. Il titolo è tratto da una lettera di Robert Lowell: “Il mio libro è di circa 120 sonetti […] Quando ne avrò una copia pulita te la spedirò, restando con il fiato sospeso in attesa del tuo giudizio” (11 giugno 1971). La prima frase di questo articolo è tratta da un’altra lettera di Lowell: “Ho scritto che le tue non sono solo poesie ma denotano l’occhio di un romanziere russo verso il mondo, o qualcosa del genere” (5 maggio 1955). La corrispondenza fra i due poeti è uscita negli Stati Uniti nel 2008 e lo scorso gennaio in Italia nella cura dell’insuperabile Ottavio Fatica. Il volume ha un solo neo: il prezzo.
E. Bishop, R. Lowell, Scrivere lettere è sempre pericoloso. Corrispondenza 1947-1977, a cura di T. Travisano e S. Hamilton, ed. it. a cura di O. Fatica, Adelphi, Milano, 2014, pp. 445, € 39.00