Milano 1981, a gennaio Francis Turatello detto Faccia d’angelo è processato in Corte d’Assise; a febbraio Luigi Marangoni, direttore sanitario del Policlinico, è ucciso dalle Brigate Rosse e delle stesse, un mese dopo, viene arrestato il capo, Mario Moretti. Sempre a Marzo vengono anche assolti tutti gli imputati della strage di Piazza Fontana (questo succede a Catanzaro, ma Milano è il cuore della sentenza). A settembre muore di morte naturale Eugenio Montale, mentre Eleno Viscardi, agente della Digos, muore per mano di Prima Linea a novembre. Il gennaio successivo, siamo già nel 1982, viene fondata Italia 1.
Un anno prima, nel 1980, solo a Milano sono stati uccisi: da Prima Linea Guido Galli, giurista; dalla Brigata 28 marzo Walter Tobagi, giornalista; dalle Brigate Rosse Renato Briano, dirigente dell’impresa metalmeccanica Ercole Marelli, e Manfredo Mazzanti, dirgente della Falck.
Questo il contesto politico milanese, costellato di esecuzioni e ancora così legato agli anni 70 appena trascorsi, in cui si innesta la vicenda raccontata da Giorgio Fontana nel suo romanzo Morte di un uomo felice (Sellerio 2014).
La trama è molto semplice, abbiamo un giovane magistrato, Giacomo Colnaghi, che indaga sull’assassinio, per opera di una banda armata di estrema sinistra, di un medico, il chirurgo Vissani, «esponente dell’ala più a destra della Democrazia cristiana milanese». Ma quello di Giorgio Fontana non è un romanzo poliziesco, bensì, come già ci aveva abituati con il precedente Per legge superiore (a cui Morte di un uomo felice si collega idealmente), una lunga riflessione tutta umana sulla vita in un paese in cui le singole vicende esistenziali non possono che essere storicamente intrecciate con la politica del territorio, a sua volta forgiata da quella grande Storia di cui, sembrano dirci i personaggi di Fontana, siamo tutti burattini. Ma burattini molto speciali, perché, all’interno del palcoscenico in cui siamo stati inseriti, abbiamo a disposizione un grande dono: il libero arbitrio. È questo, mi pare, il perno su cui gira tutto il romanzo, il libero arbitrio di un magistrato che, pur avendo una morale ben definita, cerca di capire – non scusare, non perdonare – , solo capire dove la giustizia può provare a interrompere il circolo infinito della vendetta. Il libero arbitrio di un militante che si adegua a un vocabolario burocratico al punto da burocratizzare la morte stessa. Il libero arbitrio di un uomo che diventa partigiano quasi inconsapevolmente e rischia la vita perché è l’unica direzione che sente di poter prendere.
La narrazione si trasforma così di capitolo in capitolo: se inizialmente ci era rimasto il dubbio che si trattasse solo di un’indagine giuridica bastano poche pagine per capire che l’indagine è soprattutto interiore, un percorso di riconoscimento dell’esperienza individuale e familiare.
Giacomo Colnaghi viene dalla provincia, da Saronno, è profondamente cattolico, di un cattolicesimo puro fatto di riflessione più che di paramenti, e ha una storia familiare profondamente intrecciata con la storia nazionale. Nello specifico con la Seconda Guerra Mondiale e i primi movimenti partigiani, di cui il padre (ne seguiamo la storia in parallelo a quella di Colnaghi) ha fatto parte. È tutta un’Italia a trasparire dalle vicende di questo giovane magistrato e della sua famiglia. Colnaghi ha una moglie insoddisfatta, che riesce comunque a provare sprazzi di emozione, due figli, ma uno pieno di ansie e paure, un padre di cui resta solo un messaggio e una madre che ha passato la vita ad aspettare il ritorno a casa delle persone care. In città invece ci sono i colleghi del magistrato: la friulana comunista senza un briciolo di senso dell’umorismo e il meridionale di buona famiglia. Tratti tipici di un’Italia che è più forte del tempo che passa, eppure mai banali, mai stereotipati.
Ma soprattutto, a occupare pagine e immaginari, ci sono Saronno, la provincia lombarda, i quartieri di Milano est (o meglio nord-est): il Casoretto, incastrato tra via Padova, il Trotter e Lambrate, il deposito ATM di via Teodosio, viale Porpora. Lo sguardo parte da lì per spostarsi piano piano verso il centro, verso piazza dei Mercanti e i dintorni del tribunale, arrivando fino alla stazione di Porta Genova e ai Navigli, fra spacciatori e ristoranti popolari. Giorgio Fontana la sua Milano la descrive con affetto, richiamando sensazioni, più che impressioni visive, disegnandone una mappa ben riconoscibile .
Come si è detto, Morte di un uomo felice si ricollega al romanzo precedente, sempre pubblicato da Sellerio, attraverso il legame tra i due protagonisti. Roberto Doni è il sostituto procuratore che in Per legge superiore compie, tra i migranti di via Padova e con vent’anni di ritardo, una parabola analoga a quella dell’amico e collega Giacomo Colnaghi; ed è con lui, in uno degli ultimi capitoli, che Colnaghi delinea nitidamente la sua riflessione sulla vendetta e sull’applicazione della giustizia. Un “dittico giudiziario” quindi, per quanto Morte di un uomo felice mi sembri superiore sia per l’utilizzo della lingua che per la ricerca introspettiva.
Ma tutto quello che Colnaghi esprime, con il naso un po’ rosso per l’alcol a un vecchio compagno di università, amico più per caso che per affinità, noi lo abbiamo intuito dalle prime pagine, quando Giorgio Fontana scrive: «Non era una sfida, ma qualcosa di molto più grande e complicato, il destino di un’intera nazione che cercava di elaborare un dramma, un’intera storia di torti e lacerazioni reciproche. Perché alla fine tutto si riduceva alla solita, banalissima domanda: come spieghi a un bambino la morte del suo papà?».
O ancora: «Qualche mese prima un collega di Torino gli aveva detto che il loro compito, ormai, era imparare a essere dei buoni cadaveri. Colnaghi aveva alzato gli occhi al cielo e risposto che magari, ecco, non era il caso di essere tanto cupi». E Morte di un uomo felice, ve lo assicuro, riesce a non essere mai un libro cupo.
Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice, Sellerio, Palermo 2014, pp. 261, 14€