È difficile immaginare che uno straordinario universo picaresco, fatto di osterie e bordelli dai nomi ruspanti come l’Oca Rossa o l’Allegro Viandante, di bastimenti minacciati dalla tempesta, di suore, storpi, manigoldi, ruoti intorno a un bambino di dieci anni. Un orfano – figlio della prostituta Jenny la Magra e di padre ignoto – diventa l’inconsapevole erede di una famiglia dell’aristocrazia vittoriana, attirando alle sue calcagna una negletta marmaglia di cacciatori di tesori: accattoni, furfanti, mentecatti, azzeccagarbugli e suore dalle inclinazioni materiali – e a tratti carnali.
Con Roderick Duddle Michele Mari fa nuovamente i conti con il tema dell’infanzia, questa volta in maniera meno nevrotica, lanciandosi a vele spiegate in un’avventura che dagli anfratti sordidi delle bettolacce approda in decadenti ville vittoriane, passando per il mare di Omero, «il mare degli eroi, delle sirene e dei mostri». Ecco dunque prendere forma la sequela dei vagabondaggi di Roderick e dei suoi inseguitori: una scorribanda nel quadro di un’Inghilterra immaginaria più o meno ottocentesca – di cui Mari ci offre una mappatura di suo pugno – in cui convergono le suggestioni ironico-picaresche di Fielding e Thackeray e le avventure marinaresche di Melville – con tocchi salgariani, ovviamente, come il potente ed evocativo nome Ram-Singa.
È già chiaro: come ogni altro libro di Mari, anche Roderick Duddle gronda letteratura. E la tentazione di lasciarsi andare alla vertiginosa caccia al richiamo letterario è forte. Dopo essersi giocati le carte più ovvie – Dickens, gli amati London e Stevenson o la rea confessa citazione di Steinbeck – si è tentati di andare in cerca delle suggestioni più nascoste: si potrebbe ad esempio osservare che il sottotitolo di Oliver Twist è “The Parish Boy’s Progress”, che fa il verso al romanzo cristiano di John Bunyan The Pilgrim’s Progress ma anche alle celebri parodie pittoriche di William Hogarth A Rake’s Progress (La carriera del libertino) e A Harlot’s Progress (La carriera della meretrice). Come non notare a questo punto che anche l’immaginario visivo del libro di Mari si nutre dei cicli di Hogarth, come fu per il Barry Lyndon di Kubrick? Ma la caccia al tesoro della citazione colta è un trastullo che il lettore di Michele Mari conosce fin troppo bene – e che in alcuni casi, come per Tutto il ferro della torre Eiffel, rischia di condurre alla follia. Se però la velleitaria pretesa di collezionare i riferimenti e metterli in fila come un album di figurine può risultare maledettamente oziosa, scomodare i mostri sacri della letteratura per parlare di Roderick ci permette di aprire una questione: al di là delle citazioni più o meno trasparenti, al di là della trama ingarbugliata da feuilleton, bisogna leggere il romanzo come una lotta corpo a corpo con quella “grande tradizione” con cui troppo spesso e da troppo tempo i narratori hanno smesso di confrontarsi, e che, come ricorda lo stesso Mari, non viene più «gloriosamente attraversata né drammaticamente subita ma semplicemente evitata, rimossa».
Mari invece, da lettore indefesso, ha trovato il modo di inserirsi nel solco: come nei racconti Otto scrittori e Mamapraciam, la sua voce non risulta meno autentica perché maturata all’ombra delle voci altrui, anzi, la sua scrittura è possibile proprio perché ispirata dalla passione e dal divertimento che altri autori hanno saputo suscitargli: bando quindi al timor reverenziale, niente esautorazione, solo il piacere di scoprirsi «una perla della collana».
Ed è in virtù di questo piacere che quando si parla di navi, di boccaporti, di squarcine, Michele Mari è come un bambino, anzi, come Roderick quando per la prima volta mette piede su una nave e, tramite il flebile rollio, ne percepisce il respiro.
È invece una velenosità sottile, decisamente adulta, che guida il narratore quando si abbandona a un altro topos del romanzo di genere, mutuato dalla narrativa inglese settecentesca di Fielding e Sterne: le temibili apostrofi al lettore. Lettore che si ritrova irretito e insieme bistrattato – a tratti quasi “minacciato” – da un narratore che, con ostentata affettazione, si prende gioco con sadico savoir-faire del suo lato più pudico e benpensante: «Integerrimo lettore, condannerai tu quest’uomo per la ricchezza della sua fantasia? Scaglierai la prima pietra della riprovazione? Attenderai invano, se speri che lo faccia io per te: augurati anzi che io non venga a spiarti, per narrare al mondo di te».
L’ignoranza e soprattutto la curiosità del lettore prendono il sopravvento sull’onniscienza del narratore, costringendolo in uno stato di semi-passività in cui sono i personaggi, come persone in carne e ossa, a lottare per imporsi e diventare le stelle di questo gran baraccone, non meno di quanto successe a Dostoevskij col “suo” Stavrogin.
È ciò che è accaduto a suor Alison, portatrice, insieme al Probo, di quelle suggestioni teratologiche tanto care a Mari. Questa strepitosa creatura si contende la scena con l’altro personaggio prediletto (dall’autore come dai lettori – poco margine in questo caso è lasciato al gusto soggettivo): il signor Jones, che per Mari ha le fattezze (delizia!) del grande Gene Hackman. Ma se la prima compare in sordina per poi imporsi in virtù della sua cultura – e del farsi carne della sua cultura –, il secondo, importante fin da subito nell’economia della vicenda, si conquista man mano le simpatie dei lettori in grazia di un’inaspettata e rozza purezza, che lo rende una versione un po’ più tenera e sfaccettata di quella canaglia esilarante che era “il Menzio” de La stiva e l’abisso.
Di tratti in comune tra Menzio e Jones ce ne sono parecchi: sicuramente la propensione alla congettura e all’ideazione di piani mirabolanti, che poi è una caratteristica di tutti i personaggi di Roderick Duddle: se le azioni e gli intrighi sono un’asse importante della storia, la vera trama, ancora più fitta, è ricamata attraverso le macchinazioni, le elucubrazioni più o meno machiavelliche e le supposizioni che ogni attore della vicenda, nell’assoluta parzialità del suo punto di vista, si costruisce nella testa, nel vano tentativo di mettere insieme le tessere del mosaico. Un mosaico che, se debitamente completato, mette a fuoco un mondo intero: un’ambizione di totalità che non viene solo dalla minuziosa ricostruzione dell’universo narrativo, ma anche dalla volontà del romanzo di sconfinare nella vita.
Il libro si apre infatti con una sorta di bizzarra cornice: due ceffi, Scummy e Salamoia, catturano quello che si presume essere Roderick, il quale però, perplesso, sostiene con convinzione che si tratta di un errore, che lui è Michele Mari: è l’autore che insieme al lettore viene letteralmente catturato nel vortice romanzesco, per poi riemergerne, in modo brusco e traumatico, alla fine, quando Roderick sogna di essere Michele Mari e di dover fare lezione nella triste Milano e come in ogni incubo che si rispetti preme per svegliarsi, per “essere Roderick”. E come dargli torto? Del resto, come diceva Giorgio Manganelli, «non esiste un grande libro che non sia infetto», e l’infezione di Roderick è proprio questa: lasciare i lettori orfani di quel mondo. Anche perché, diciamocelo, Mari crea lettori esigenti, viziati, che poi fanno fatica ad approcciarsi ad altre letture contemporanee. Ma questo, mio agnostico lettore, puoi confermarmelo solo tu.