di Sergio Peter
Con questo Selve d’amore Gianni Celati, uno dei massimi narratori italiani viventi, porta a compimento il ciclo dei Costumi degli italiani. Siamo certamente in una delle migliori collane di narrativa oggi attive in Italia, e cioè la Compagnia Extra edita da Quodlibet sotto la direzione di due personaggi che celatiani sono nell’intimo: Jean Talon (già compagno di viaggio dell’autore ferrarese in Avventure in Africa e Passar la vita a Diol Kadd) e Ermanno Cavazzoni (massimo interprete del dar la voce ai folli inaugurato da Celati con Comiche). Collana che continua a spaziare tra prose lunatiche e spostate, anche ripescando autori dimenticati come Tom Kromer o Michail Saltykov Scedrin.
Ma veniamo al testo in questione: quattro racconti popolati da donne, bambini e matti.
A me una cosa che ha sempre impressionato di Celati è la capacità della sua prosa di muoversi sul filo del tempo senza andare da nessuna parte e senza dimostrare nessuna tesi. Cioè la pura narrazione. Tu come lettore t’imbatti in questi personaggi in mezzo a dei momenti che si susseguono come casualmente, e leggendo t’emozioni a seguire questi camminatori, che fluttuano nelle cose e nelle apparizioni con dei forti desideri, che a volte anche saziano, e continuano finché poi a un certo punto il racconto è finito. Se ti capita di individuare una direzione, subito il racconto vira dall’altra parte. Si fluttua come in un vento. Nessuna morale, nessun vero insegnamento. Ora io dirò che questi quattro racconti sono dei capolavori. Li trovo anche migliori dei brani che componevano i due volumi precedenti.
Come per esempio Selve d’amore, il primo, che dà il titolo al volume, è intriso di fantasticazioni, cioè di pensieri che vengono su dallo spirito come dai pozzi e non hanno ragione di esistere, sennonché l’essere umano ne produce continuamente, come quella «nebbia nota come malattia delle tubature marce». È l’esatto contrario della supposta razionalità dominante oggi, il delirio scientifico delle spiegazioni, che ha corrotto anche molta narrativa. Il tempo del racconto è l’imperfetto, parla una voce di ragazzo figlio d’una sarta, madre che lavora in casa e su cui pesa la gelosia del padre nei confronti del figlio maggiore; tra i due aleggia come un’atmosfera d’incesto, mai detto veramente, ma sempre indicato. Il narratore mostra di continuo il limite del suo punto di vista, il rischio di farsi prendere troppo dal calore delle cose raccontate «Però devo dire le cose una alla volta, altrimenti le frasi diventano ingarbugliate»; «Li racconterò come posso, non ricordo molto», «non so collocare i fatti». È tutto un groviglio di passioni nascoste e che sguizzano via negli anfratti della pagina. Corpi che si toccano non del tutto involontariamente, si fa finta di niente. Vertigini, annebbiamenti, mancamenti, confusioni provocati da toccate, la donnona si fa desiderare con prepotenza, il giovanotto e la donna matura, come la madre col figlio. Ed è quindi non altro che la descrizione dello stato d’innamoramento, la mancanza di lucidità, l’affettività rivolta all’apparizione: ora è il donnone, mentre prima erano stati i passaggi della foce del Po. Ed è sempre per dire quello che è capitato a tutti nella vita, amare una maestra, o guardare con occhio maldestro la mamma: i sentieri del rimosso, dell’inconscio cancellati dal pensiero ufficiale, qui ci si va dentro con tutto il corpo, ci si immerge dalla testa ai piedi nei terreni del desiderio desiderante. Finché l’apparizione che ci muove si fa lontana, e noi andiamo a inseguirla, basta una bicicletta. Dicono ricordi il Bernhard di Un bambino, per come sa essere folle e risoluto il ragazzetto nella sua decisione di inseguir non si sa cosa, se non la sua bramosia, i suoi pruriti pedalando senza meta. Mi piace molto come Celati prende in giro i trattati di sociologia e le idee generali sui gruppi umani, mettendo in bocca al bambino l’idea che voglia vedere «come si svolge la vita umana da quelle parti». Cioè, questa paradossalmente diventa materia per difendere la sua decisione folle di andar a casaccio alla ricerca della sua amata, le spiegazioni ufficiali sono utilizzate per altro, per il contrario, per giustificare i movimenti insensati e irresponsabili di un adolescente. È bellissimo poi come da un’affermazione buttata senza pensarci – senza motivo «faccio il servo» – nasca tutta una storia inventata e assurda su delle chiavi e via dicendo. Narrazioni che vengono fuori d’improvviso e poi tutto cambia, anche l’oggetto delle voglie. Come ogni cosa muta in fretta, in questo brano, segnale di grande maestria narrativa. Vi dico solo che leggendo l’ultima pagina del racconto, a pagina 40, mi sono anche commosso per la bellezza delle immagini.
Viene poi Il caso Muccinelli, che secondo me è un modo di prendersi gioco del genere poliziesco, e della mania di trattare il lettore come un topo da laboratorio e attirarlo dove si vuole; qui chi scrive pare fare lo stesso, invece quel che conta non è il punto finale, e i segni lasciati non sono indizi ma sintomi d’una malattia diffusa, tutto il mondo attraversato colle sue schifezze di poteri e sotterfugi; cioè nel racconto c’è questo investigatore forestiero che compare in città a un certo punto, e mette scompiglio a ogni cosa, indagando sui malaffari di politici e giornalisti. Noi lo seguiamo nelle sue camminate, nelle sue occhiate lanciate all’intorno, ma non si sa cosa cerchi. Ha sempre qualcosa da appuntarsi, quel tal Muccinelli, e infastidisce i potenti. Qui e in altre pagine ho ritrovato delle atmosfere già presenti in certi libri di Maurizio Salabelle, in particolare Un assistente inaffidabile.
È importante non tanto che cosa lui cerchi, ma tutto il rituale di usanze e malcostume che gli si para davanti, finché poi qualcosa si capirà. Mi sembra che l’idea qui in superficie sia che un fabulatore come tale stravolge ogni politica di amministrazione del territorio, e lo fa semplicemente con la forza delle fantasie provocate liberamente in chi legge, e in chi gli vive intorno e con gli spazi lasciati aperti, le cose insensate messe lì per pura teatralità.
Di Matrimonio Bellavista bisogna parlare come della storia del Cesa trasognato e della sua famiglia, un padre donnaiolo che spende più di quello che ha per il vizio del gioco, un fratello con sogni di rivalsa che vorrebbe a tutti i costi unirsi alla figlia del ricco Bellavista, e la madre che cerca di tenerli a bada tutti, ma che ha un debole per i giovanotti. Cesa è un tipo che fantastica ad occhi aperti e viene cacciato dalla scuola, ha il sogno di imbarcarsi come mozzo su una nave. Compare poi il muratore che fa il filo alla madre, e inoltre Valerio, il figlio maggiore, torna a casa perché cacciato dalla casa dal padre della morosa. Tutto un intreccio di incontri labili, turbamenti di cuore e animo, su e giù fa lo spirito, sono quasi fantasie, tanto cambiano velocemente davanti agli occhi del lettore. Perché poi Valerio finisce per sposarsi con la ragazza, e il bello è che tutta la famiglia costruisce uno spettacolo di famiglia felice per superare il giudizio di un altro investigatore privato reclutato dalla famiglia della sposa. Questa piccola messinscena è rappresentata proprio come messinscena, e l’immagine finale di un uomo «perso nell’anonimato del mondo» non lascia molte speranze, a chi aveva intravisto fin lì in una conclusione accomodante.
La perla finale della raccolta è intitolato La notte, l’ultima passata dal Pucci libero nel giardino di suo nonno muratore. Aurelio Pucci è un matto da poco uscito dal manicomio, che passa le giornate sdraiato a fumare con il labbro in fuori. Di fianco a lui c’è quel nonno lavoratore, che trascorre il tempo nel tentativo di mettere un qualche tipo di ordine nello spazio esterno, cerca cioè di controllare il giardino innalzando muri. Ma quando viene la notte, e ancor prima, ad avere la meglio sono i pensieri che passano senza un senso, una direzione. L’esatto contrario della materia ferma, lo spirito che vola, risucchi, imbambolamenti e tempo perso. Anche qui c’è una madre, che con tanta premura e affetto alleva il figlio diciannovenne portandogli il cibo e standogli vicino (fin troppo!). Fino a quando dopo l’ennesimo rimprovero lui sbotta e le fa del male. Storia notturna senza morale, anche qui si nasconde il mistero della promiscuità madre/figlio, e i veri folli qui più che altro sembran quelli che restano fuori nel mondo meccanizzato, a guardare là dentro nelle riserve quella umanità ancora capace di sogno.
Gianni Celati, Selve d’amore, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 110, 12,50 €