Che lo si chiami palude, selva o semplicemente “terra”, è sicuro che il paesaggio della narrativa italiana degli anni zero è ancora difficilmente mappabile, quanto meno in termini concordati e condivisi. Per questo esistono i critici militanti, che, come ricorda Raffaele Donnarumma nel suo ultimo Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea (e un estratto che tocca proprio questo punto lo trovate qua), hanno il compito di cartografare, e così giudicare, l’esistente. Così capita che i critici militanti, di tanto in tanto, decidano di fare delle antologie, divertendosi nell’eterno gioco del chi dentro e chi fuori, che porta implicita, tuttavia, una seria proposta di canonizzazione.
E seria sicuramente è l’ultima iniziativa di Andrea Cortellessa, viste le quasi 900 pagine che compongono La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero 1999-2014 (L’Orma editore) e che la distinguono da tutte le innumerevoli ed estemporanee antologie sfogliate negli ultimi anni (dall’ormai storica Gioventù cannibale alle più recenti e variegate iniziative di minimum fax – come Best Off, 2005 e 2006, con i “pescati” dalle riviste letterarie, Voi siete qui, 2007, dedicata agli esordienti, o l’“autorevole” Anteprima nazionale, 2009). Qui, d’altra parte, non si tratta di raccogliere testi inediti di esordienti, né di invitare a un saggio di bravura autori già affermati, bensì di raccogliere alcune pagine significative di quelli che, ad oggi, si possono definire come i narratori più rappresentativi degli ultimi quindici anni.
La cosa più interessante di questa antologia, anche per questo, è il suo essere strutturata secondo un principio inclusivo, che non segue quindi, nella selezione, una norma di genere, di stile o di “gruppo”, ma l’aleatorio quanto nobilissimo criterio del “valore”. E così ecco 30 autori (trenta!), accomunati dal solo fatto di aver esordito – aver trovato il proprio floruit, la propria maturità – dopo il 1999 (ovvero, niente Michele Mari, Walter Siti e Antonio Moresco, confermati così nel loro ruolo di “maestri” fuori categoria): un numero sicuramente alto, che si spiega tuttavia con la necessità di rendere attendibile ed efficace l’opera di selezione e promozione rispetto al contesto contemporaneo, caratterizzato da uno stadio di proliferazione editoriale inarrestabile e disorientante. L’altra cosa interessante, poi, è che La terra della prosa rappresenta l’aggiornamento – e l’ampliamento – di un’antologia uscita, sempre a cura di Cortellessa, solo tre anni fa come numero doppio della rivista «L’Illuminista»: si può quindi provare a capire con quali criteri questo aggiornamento è stato fatto, vedere chi è riuscito a entrare e chi invece è rimasto fuori ancora una volta (come Paolo Sortino, citato, in quanto voce promettente, in chiusa della prima Introduzione).
Lo “zoccolo” dei 25 scelti nel 2011, naturalmente, è rimasto invariato: Pincio, Nori, Cornia, Pascale, Permunian, Lagioia, Raimo, Pica Ciamarra, Pugno, Arminio, Morelli, Trevi, Falco, Samonà, Baroncelli, Vorpsi, Ricci, Rastello, Saviano, Babsi Jones, Bajani, Pecoraro, Vasta, Pedullà, Policastro. A questi si sono aggiunte le cinque new entry, non tutte “novissime”: Gherardo Bortolotti, Mariano Bàino, Emmanuela Carbè, Valerio Magrelli e Davide Orecchio.
Le scelte relative ai nuovi, queste sì meno inclusive rispetto ai “confermati”, riflettono in maniera maggiore – maggiormente parziale – le idiosincrasie del curatore. E quindi ecco Carbè, dal cui Salmone Cortellessa si dichiarò subito rapito («il libro più singolare e coraggioso della stagione»); poi l’“indiano” Davide Orecchio (autore di Stati di grazia, e prima di Città distrutte, «senz’altro il “caso-letterario” del 2012»), e tre poeti “prestati” alla prosa, di cui due, Bàino e Bortolotti già reclutati da Cortellessa nella collana sperimentale Fuori formato (Le Lettere) e uno, Magrelli, raro caso di canonizzato in vita, che entra nell’antologia per le sue varie prove prosastiche memoriali, e soprattutto grazie al lodatissimo Geologia di un padre. E d’altra parte proprio questa eccezione magrelliana, così come l’esordio di Carbè, incarnano bene l’idea di una prosa italiana che tradizionalmente, sostiene Cortellessa, trova le proprie espressioni migliori in forme non romanzesche, ovvero al confine tra i generi, laddove la narrazione si sbriglia e si fa polimorfa, fluida o franta, magari pure biografica, ma senz’altro sintatticamente, anzi strutturalmente eccentrica.
Si tratta, cioè, di quella «tradizione plurale» della narrativa italiana che farebbe da controveleno alla monocoltura parassitaria del romanzo, presentato come il complice più subdolo del preteso “ritorno alla realtà” che caratterizzerebbe oggi le scritture insieme più pretenziose e piatte. Ben altra, invece, è la realtà a cui attingere con la “fabulazione”, nozione di conio celatiano che fa da stella polare alla presentazione del curatore. Proprio Celati (e in particolare quello di Narratori delle pianure), infatti, viene individuato come “maestro” delle nuove leve di scrittori, i quali, confermando una tradizione che passa da Leopardi, Svevo e Landolfi per arrivare ai non citati Arbasino e Manganelli, mostrano come le risorse più fertili per la narrativa si trovino nella «condizione fluida e polimorfa della prosa», che può spaziare dalla forma breve a quella lunga, dal romanzo-saggio al frammento, dal racconto al poème en prose.
Scritture «border-line», come si legge, che ribadiscono l’opzione decisa per uno sperimentalismo formale, strutturale ed espressivo, orientato a contestare, ma più spesso a superare “indifferente” i limiti e le presunzioni del romanzo (secondo una tradizione critica che trova appoggio nelle posizioni di Berardinelli, Ferroni, Cordelli). Un’opzione che, nell’oppressivo regime del romanzo, cerca di affermare un perenne stato di “eccezione”. Un’opzione tuttavia che, nell’enfasi del porsi “contro” e “fuori”, rischia di non riconoscere l’autorevole funzione di “autenticazione” che il genere romanzo ricopre ancora agli occhi dei lettori (e non solo di quelli più inesperti, come teneva a ricordare Vittorio Coletti). Un dato, questo, complementare al fascino che la forma lunga e articolata sembra riscuotere ancora presso molti degli stessi scrittori, che vi ricorrono con convinzione nel momento in cui percepiscono mature le proprie capacità di espressione e di formalizzazione narrativa: valgano su tutti gli esempi di Falco (La gemella H) e Pecoraro (La vita in tempo di pace).
Insomma, ogni antologia, soprattutto quando presentata con un testo dal rilievo teorico e critico così pronunciato, si presenta come un invito a discutere e a mettere in questione, tanto le specifiche scelte compiute dal curatore, quanto i presupposti primari di un’operazione di selezione e giudizio qual è un’antologia. Per questo ho pensato che l’uscita di Terra della prosa fosse una buona occasione per lanciare una piccolissima indagine che avrà inizio domani e che vedrà un piccolo drappello di critici e critiche delle nuove leve, chiamati a confrontarsi con tre domande riguardanti antologie e canoni, orizzonti di scrittura e orizzonti di lettura, cartografia e militanza.
A rispondere saranno, nell’ordine:
- Raoul Bruni e Francesca Fiorletta
- Raffaello Palumbo Mosca e Marco Mongelli
- Fabio Donalisio e Sonia Caporossi
A loro e alla loro disponibilità va fin d’ora il mio ringraziamento.
I contributi verranno pubblicati a partire da domani e saranno raggruppati in coppie, perché la mia intenzione non è tanto quella di ospitare una rassegna di opinioni individuali, ma piuttosto di far reagire tra loro i giudizi e le considerazioni critiche, nella speranza che da questo primo spazio di dibattito si possa aprire, qui o in altre sedi, una discussione più estesa e articolata.