di Francesca Fiorletta
Difficile negarlo: negli ultimi tempi, c’è sempre più bisogno di bellezza.
Imparare a gioire dei piccoli e grandi momenti di estasi, appassionarsi per un’alba goduta da una terrazza, commuoversi contando le spighe di grano di un campo sterminato, calarsi nei vicoli più scalcinati dell’entroterra partenopeo e sentire, appiccicato sulla pelle, quel certo vivifico miscuglio di polvere di gesso e gelsomino fresco e stufato caldo della nonna.
C’è questo bisogno, forte e chiaro, dappertutto, di lasciare andare fatalmente i freni inibitori del cinismo, dell’atarassia, dell’intellettualismo gauche caviard a ogni costo; la paura, anzi che dico, il terrore di risultare barocchi e melliflui è ormai decisamente surclassato da un qualche potentissimo ritorno all’esaltazione delle sensibilità più intime e veraci dell’animo umano.
Il primo, sconcertante esempio che abbiamo avuto in tal senso, sul grande schermo, risale all’anno scorso, 2013, ovviamente con La Grande Bellezza romana di Paolo Sorrentino, film di cui si è detto più o meno tutto e il contrario di tutto, ma che sicuramente non ha lasciato indifferenti pubblico e critica italiani e internazionali, tanto da guadagnarsi un Oscar, ovviamente molto discusso.
Poi è stata la volta de Le Meraviglie di Alice Rohrwacher, premiata al Festival di Cannes, pellicola prevalentemente a conduzione familiare, tutta girata ai confini tra Umbria e Toscana, che racconta le vicende di una ex comune post sessantottina di apicoltori, e s’impernia con estremo garbo sullo sguardo, lucidissimo e tuttavia ancora non del tutto marginalmente incantato, di una delicata adolescenza, pronta a sbocciare e quindi per forza di cose destinata a scontrarsi con la società borghese dei consumi inscatolati e dei talent show televisivi.
Adesso, invece, nelle sale, in pochissime sale cinematografiche (della capitale), invero, splende di luce propria un’altra gemma di rara e grezza purezza: Le Cose Belle, un intelligentissimo docu-film di Agostino Ferrante e Giovanni Piperno, ambientato nell’asfissiante hinterland napoletano, in cui un gruppo di giovani di belle speranze viene ripreso e intervistato prima e dopo un lasso temporale di 12 anni, che ovviamente sarà decisivo per lo sviluppo delle loro vite più che precarie.
Sviluppo che, a una prima occhiata, sembrerebbe assolutamente involutivo: un ragazzino geniale e intraprendente subisce un grave lutto in famiglia e perde l’entusiasmo e la passione che aveva sempre coltivato per il gioco del calcio, finendo a bighellonare tutto il giorno senza costrutto, impiegato solo nel tenace proposito di non farsi sfruttare e – lui dice – testualmente “schiavizzare” dall’ambiente lavorativo imperante; un promettente cantante lirico si improvvisa stanco venditore porta a porta di una allora nascente compagnia telefonica, per un periodo di tempo limitato quanto estremamente avvilente; un’aspirante ballerina, poi ragazza madre, si ritrova costretta a fare i conti coi gangli oscuri della giustizia e della lap dance; un’altra spigliata amante dello spettacolo, d’animo ribelle ma certamente assennato, finirà a lavorare come cameriera part time, nel tentativo disperato di lenire il dolore di una madre sempre assente.
Dov’è, dunque, questa assolutizzante bellezza preconizzata dal romanticissimo titolo del film?
A Napoli, ma ormai è diventato quasi un gergo comune unificato, è molto in voga l’espressione: “Tante cose belle”. Questo augurio, cortese e galante, sta a significare, com’è sapientemente spiegato dalla stessa regia, che nella vita non può mai esserci alcuna garanzia di un futuro roseo, e che con grande probabilità le esistenze di ciascuno verranno sconvolte da piccoli e grandi drammi quotidiani, com’è insito nel naturale decorso delle cose, appunto.
L’augurio però, e insieme il forte segnale di speranza, e più che altro di lotta, imperitura e senza trincea, è che le cose belle che talora capitano, anche agli uomini comuni, possano essere in numero maggiore rispetto alle disgrazie, o almeno che la bellezza che di quando in quando fa capolino nelle nostre vite, per quanto effimera, per quanto blandamente superficiale e momentanea, sia così toccante e avvolgente da surclassare, per intensità, tutto il dolore e la bruttura che il mondo potrà riservarci.
Se quindi, per dirla con Goethe, “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, lo sguardo di questi tre film e dei loro pur diversissimi protagonisti ha colpito perfettamente nel segno.