Agosto. Il Mondiale è un ricordo; la nuova stagione di Serie A, un placido ostaggio del futuro; anche i tornei e i torneini pre-Campionato al momento appaiono come una vaga incombenza. Di calcio insomma, o già o ancora, non si parla, per riprendere il titolo di un bellissimo libro di Francesca Serafini (uscito quest’anno per Bompiani; ne ho parlato qui). Però di calcio si scrive e si legge. Uno che ne ha scritto in un libro di cui non s’è detto abbastanza, e che invece converrebbe leggere, è Giancarlo Liviano D’Arcangelo, autore di Gloria agli eroi del mondo di sogno (il Saggiatore, Milano 2014, 304 pagine, 16 €).
Per intuire il verso della sua operazione torna preziosa Serafini (ok, confesso che questo è un doppio consiglio di lettura; anzi, triplo: capite poi il perché) quando scrive del campo di calcio come di un palinsesto, termine che «originariamente indicava una pergamena sulla quale si poteva imprimere un testo che poi poteva essere raschiato per scriverne un secondo. Un po’ come il campo verde, appunto, dove ogni domenica si ricomincia una partita. Gérard Genette però ci ha spiegato che per quanto possa essere accurata la raschiatura, una traccia del testo precedente resta sempre».
Se si avrà la pazienza di affrontare il lungo e talvolta faticoso viaggio che è la lettura di questo libro – poco meno di trecento pagine densissime non solo graficamente – non mancherà la soddisfazione di scoprire la sua natura di ipertesto (cartaceo, certo), dove ogni piano sprofonda nell’altro per poi riemergere portando in superficie ulteriori strati. In sintesi, lo si può definire come una riflessione filosofica intorno alla funzione del mito calcistico sulla mente bambina, contenuta da un’idea di romanzo sui generis e mutante in due forme perlopiù: la cronaca calcistica (cioè il racconto al tempo presente di azioni o di interi match classici) e il memoir dell’infanzia. D’Arcangelo scrive con sentimento fenomenologico, ricostruendo pagina su pagina, senza scarti apparenti, senza ellissi, l’apparizione dell’esperienza, sia essa la finale mondiale Italia-Francia del 2006 o il ricordo del tiro di un torsolo di mela «tra l’osso parietale e la nuca» della sorella maggiore mentre gioca con un’orrorifica bambola di ceramica; la sequenza delle prodezze di Maradona o la costruzione di un mini stadio-Frankestein nel salotto, collage ottenuto a suon di ratti e razzie ai danni degli oggetti di casa (la moquette per la zollatura, il «sacro tulle» della madre per le reti delle porte ecc.); o ancora la grandiosità epica e sanguinolenta di Terry “Bloody” Butcher, capitano dell’Inghilterra anni Ottanta.
Se si dovesse cercare un’analogia calcistica per la prosa di D’Arcangelo la si troverebbe nel gioco del bell’Antonio Cabrini, il «difensore goleador». Così è il libro, che seppure impostato sul tono dell’allegria, ora affabulatoria ora intellettuale, si muove spesso in ombra, lontano dall’azione, macinando chilometri cioè pagine e pagine di analisi, ricordi personali o letterari carichi anche di comicità, descrizioni barocche; ma poi all’improvviso sferza i riflessi del lettore con guizzi che sono veri gol, pagine dispensatrici di un’adrenalina insospettabile, corrispondenti quasi sempre alle cronache calcistiche di cui sopra, capaci di far dimenticare che la fine – come si dice – è nota, scritte come dovessero raccontare le azioni degli eroi dell’epica classica (ma questo lo anticipava già il sottotitolo: Il gioco del calcio. Racconto fantastico di un universo mitico).
Ora resta solo da svelare il terzo consiglio di lettura. Venendo subito al dunque: tra i meriti di D’Arcangelo c’è quello di citare un libro del passato, raro, quasi sconosciuto, ma imperdibile, scritto da uno juventino come lui: il solitario Salvatore Bruno (1923-2001), nato a Presicce (provincia di Lecce), allievo di Romano Bilenchi, giornalista – prima di scegliere il definitivo silenzio – all’Espresso. Il libro si intitola L’Allenatore, è dedicato a Omar E. Sivori e fu pubblicato da Vallecchi nel 1963 per essere riproposto quarant’anni dopo da Baldini&Castoldi sotto la cura di Massimo Raffaeli, altro scrittore di storie di calcio, ma poi scrittore tout court, colto e raffinatissimo, e prima di tutto brillante critico (tra parentesi, e mi si perdoni la nota personale: proprio quel critico che mi consigliò la lettura di Bruno).
Ecco due brevi assaggi:
«… riducendo a strumento uno degli artifici più importanti del passato ma non più del presente la scrittura può abolire quell’altro importantissimo artificio finora fondamentale a cui nessuno nella storia dell’umanità è mai riuscito a rinunziare volontariamente, solo i muti per esprimersi aboliscono la parola ma contro la loro volontà, ecco cos’è un muto volontario che parla per procura, si serve dell’artificio della parola degli altri sta lì seduto senza dire nulla tanto sa che un altro dice quello che dovrebbe o potrebbe dire lui e il risultato non cambia…»
«… io che sto parlando ora sono il leader occasionale il portavoce il robot parlante del gruppo del clan occasionalmente designato o autodesignatomi a esprimere pensieri comuni, domani stasera potrò dire l’opposto ma dirò lo stesso delle verità che stupidaggini che idiozie! e le dirò allo stesso modo e come potrebbe dirle uno qualunque di voi, abbiamo il monolinguaggio che malinconia, possibile che non ci sia più nessuno che non è bravo e che non sa dire delle cose intelligenti? monointelligenza e monoconsapevolezza critica di se stessi e del presente momento storico tutto espresso col monolinguaggio, che noia…»
Non c’è spazio residuo per soffermarsi su questo libro torrenziale e sfrontato – romanzo d’avanguardia nesciente della neoavanguardia, primo (e ultimo) del suo autore, e primo anche (cito dall’introduzione di Raffaeli) «a trattare del calcio come allegoria esistenziale e spia del boom economico» – che è un altro modo per dire: mettetelo in lista e correte in libreria, magari ne è rimasta una copia. Ma è più probabile che vi vada male; nel caso, non disperate: certamente una biblioteca, anche se è estate, la troverete aperta.